Droga e cellulari al carcere Pagliarelli, il ruolo dei catanesi

Droga e cellulari al carcere Pagliarelli, il ruolo dei catanesi

I nomi ed il giro d'affari

CATANIA – Per entrare in carcere, i cellulari venivano avvolti più volte di vari strati di scotch e di carta carbone. Uno, due, più giri per permettere che venissero occultati del tutto ed eludere così i controlli in entrata nella casa circondariale. 

L’uso della carta carbone e del nastro isolante, consente infatti di schermare l’ingresso dei telefonini al passaggio dal metal detector sito all’ingresso del carcere.

Le indagini della Direzione distrettuale antimafia guidata da Maurizio de Lucia si riferiscono a quanto accadeva al carcere Pagliarelli di Palermo. E coprono il periodo settembre 2023-aprile 2025. L’inchiesta parte dalla scoperta di un traffico di droga e dal ritrovamento di telefonini all’interno del penitenziario. Secondo l’impianto accusatorio, le guardie carcerarie avrebbero chiuso un occhio in cambio di mazzette.

Al mercato del carcere Pagliarelli i prezzi sono fuori controllo. Li impongono i detenuti più forti che si sarebbero riuniti in una banda. Antonio Nigito, Alex Di Vita, Giuseppe Volpe e Vincenzo Cannariato (i primi due catanesi, gli altri palermitani) sarebbero i capi.

Il ruolo dei catanesi

Il catanese Antonio Nigito è stato riconosciuto nel ruolo di capo-sezione, profittando della presenza di numerosi detenuti etnei. SI sarebbe avvalso come braccio destro di un altro conterraneo: Alex Di Vita. Avrebbe, inoltre, esercitato le sue prerogative di comando anche nei confronti di alcuni esponenti della polizia penitenziaria. Dai quali avrebbe ricevuto informazioni sulla presenza di microspie e sulla organizzazione di perquisizioni. Comunicazioni che avrebbe utilizzato anche per fare introdurre telefonini e stupefacente in carcere.

Dagli sviluppi delle indagini sarebbe emerso che l’organizzazione del traffico di stupefacenti avveniva per piani: al primo comandavano i palermitani. Ed i nomi sarebbero quelli di Alario, Cannariato e Cstiglione. Al terzo i calabresi, al reparto Ionio i catanesi, dove c’erano appunto Nigito e Di Vita che gestivano “gli affari” assieme ad un altro nome eccellente, quello di Volpe.

Tuttavia, tra tutti, i rapporti erano continui e difatti i palermitani erano sovente costretti a rifornirsi dai catanesi. E viceversa. La posizione di supremazia di Nigito sugli altri detenuti emerge anche dall’atteggiamento ossequioso che sarebbe stato tenuto nei suoi confronti da altri agenti della Polizia Penitenziaria. Tuttavia, non coinvolti in episodi corruttivi. Alex Di Vita, a detta degli inquirenti, è il principale collaboratore di Nigito.

Intrattiene contatti diretti per conto del sodalizio e veicola informazioni relative alla presenza di telecamere all’interno della sezione detentiva. Nonché coordinando i sodali sia dentro il carcere che fuori.

La ricostruzione dell’inchiesta

Lo scorso 23 maggio i carabinieri del comando provinciale di Palermo, insieme alla Penitenziaria del capoluogo e di Padova, hanno eseguito 12 misure cautelari: 10 in carcere e due agli arresti domiciliari (sette persone erano già detenute). Le accuse contestate a vario titolo sono corruzione, accesso indebito di dispositivi idonei alla comunicazione, associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, spaccio di sostanze stupefacenti.

Un circolo vizioso descritto già nel racconto successivo al blitz: “Una ‘canna di fumo’ costa venti euro, oppure si può scambiare con tre pacchi di sigarette. Un grammo di cocaina si compra fra 100 e 150 euro. In condizioni estreme il prezzo schizza a 600 euro. Fuori dal carcere ce ne vogliono 60. Un microcellulare costa 500 euro. Tra gli stessi detenuti circola la voce che qualcuno “ha guadagnato 15 mila euro dai telefonini”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI