Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Mariangela Di Gangi, consigliera comunale di Palermo e da anni attiva nel quartiere Zen, in replica all’articolo di Eusebio Dalì “Palermo, emergenza sociale e paura: investire sulle forze dell’ordine“
Lo so. Parlare di educazione, inclusione ed opportunità formative e culturali come antidoto alla crescente violenza nella nostra città, oggi, sembra “aria fritta”. Dinanzi all’atroce ed evidente tangibilità delle conseguenze che l’assenza pluridecennale di tutto ciò ha prodotto in intere generazioni di ragazze e ragazzi – quelli che compongono la maggioranza della popolazione giovanile della nostra città – tutto ciò sembra vuoto o buonista.
Ed è vero: ci sono interi quartieri nella nostra città dove il solo fatto di esserci nato, ancora oggi, ha già scritto un pezzo del tuo percorso. Una grande ingiustizia. Eppure chi scrive, per più di dieci anni, questa prova l’ha fatta, quella di lavorare attraverso le opportunità educative e sociali per far sì, appunto, che nascere in un posto piuttosto che in un altro non significhi avere già visto segnare il proprio destino. E posso affermare con certezza che funziona. Certo, di sfide se ne perdono. Dico anche – dolorosamente – tante. Perché i destini segnati sono spesso più forti del cambiamento che si prova a proporre e gli sforzi proferiti da coloro che ci provano sono quasi insignificanti di fronte a un sistema troppo consolidato e difficile da smontare, senza uno sforzo istituzionale straordinario e all’altezza della situazione.
Vorrei però che, affrontando questo tema, partissimo dalla consapevolezza che le madri e i padri dei “ragazzi di borgata”, quelli predestinati alla violenza o alla delinquenza, non hanno meno paura dei genitori del resto di Palermo. Oggi e pure prima. La paura di perdere un figlio o che gli venga usata violenza, questa sì che è democraticamente trasversale. A non essere democratici sono gli strumenti a disposizione per evitare che ciò accada.
Perché la strada, da sola, oggi è una cattiva educatrice: nella migliore delle ipotesi ti fa crescere in fretta e nella peggiore ti ingaggia in un gioco a cui spesso non puoi dire di no. Dico “non puoi” e non “non vuoi” perché è questo quello che da sempre contesto alla nostra società: potremo puntare il dito contro e dividere il mondo in buoni e cattivi solo quando saremo certi che diventare cattivi sia stata una scelta consapevole e non una delle pochissime possibilità che hai di fronte quando nasci non necessariamente povero, ma in contesti che la povertà hanno cristallizzato come irredimibili.
Perché la strada, da sola, oggi è l’unica educatrice: se non hai i soldi per pagare i corsi pomeridiani di musica e di sport o anche solo per andare al cinema e al teatro e avere la possibilità di uno svago sano. E questo vale di più per i quartieri popolari e per le periferie isolate. È lì che la strada è l’unica, seppur cattiva, educazione che ti spetta.
Certo, esiste e resiste la scuola. Esistono e resistono oratori e associazioni di quartiere che provano ogni giorno a non lasciare le nostre ragazze e i nostri ragazzi da soli per strada. Ma quando penso al quel lavoro in questi giorni mi viene subito in mente la frase “io un ma firu”. Quante volte l’ho sentita pronunciare. Perché anche nei ragazzi più ostili e difficili, ad un certo punto, si accende una luce nello sguardo immaginandosi in un modo diverso. Ma quella luce viene subito spenta dal senso di impotenza e di incapacità. Dalla convinzione che alcune cosa non siano destinate a te.
Poi ci sono gli eroi e le eroine, quelli che celebriamo come eccezionali (perché tali sono, data la fatica che devono fare e che il triplo di quella di chi vive nell’agio). Il ragazzo che riesce a fare strada nel mondo del calcio o della musica, la ragazza che eccelle a scuola o a teatro. Lì sì, anche il resto del mondo riconosce che non è la regola e che sono eccezionali. Le eccezioni eroiche che rafforzano il sentirsi una nullità di quelli che sono e vogliono essere normali. Non geni, non delinquenti. Normali.
E quindi “io un ma firu”. Emblema della presunta incapacità ormai insita in chi non crede nemmeno di meritarlo un destino diverso e una vita normale. E noi non ci possiamo permettere di assecondare questa china, perché denoterebbe invece una incapacità tutta nostra, di chi prova ad abbozzare soluzioni e a rispondere al problema, e non loro.
Perché dico tutto questo? Perché a Palermo, come altrove, non esiste nessuna improvvisa emergenza. Esiste il prodotto di una netta distinzione tra chi può e chi non può, tra due città che corrono a velocità sempre più diversa e la cui esistenza, fin quando non vengono a sparare negli stessi locali che frequentiamo “noi” e i nostri figli, non ci ha né preoccupati né indignati. Quello che ci aspetta adesso non è di semplice risoluzione, mettiamocelo bene in testa. E prendere scorciatoie per contenere il problema non affrontandolo è la premessa per farlo diventare ancora più grande. Sarà un lavoro lungo e difficile, che deve certamente essere affiancato da azioni veloci.
Però esiste una intera letteratura che ci insegna che, quando si gioca a guardie e ladri, non sempre sono i primi ad avere la meglio. Se è dunque innegabile che abbiamo la necessità di presidiare di più e meglio il nostro territorio, chiediamo che ciò accada in tanti modi e non solo attraverso una maggiore presenza di forze di polizia.
Che poi sarebbe bene ascoltarle pure quando le tiriamo in ballo, dato che loro stesse ci dicono – e lo fanno da anni – che senza un parallelo lavoro sociale non possono farcela nemmeno loro. Perché se ai ragazzi e alle ragazze delle nostre borgate dessimo la sensazione che la loro vita vale quanto quella degli altri, forse ci penserebbero più di una volta e non rischierebbero prigione e vita con tanta semplicità. Perché se ai papà e alle mamme di Zen, Cep, Sperone, Sferracavallo e via discorrendo dessimo la sensazione che non sono soli con la loro preoccupazione che i propri figli rischino prigione e vita, forse sarebbe più semplice ed efficace affrontare, insieme, il problema.
Quindi, vogliamo l’impiego di più forze di polizia per strada a proteggerci dalle pallottole e dalle risse? Ci sto, dai. Però voglio pure l’impegno immediato per corsi di formazione professionale che ti insegnino un mestiere per cui c’è un mercato e non che occupino il tuo tempo e basta, così magari anche se non hai fatto il liceo o l’università, l’indomani mattina devi svegliarti per andare a lavoro e le notti brave non sono il tuo unico appuntamento. Voglio che sia certo che spacciare o delinquere in senso generico sia una scelta consapevole e non l’unica cosa che puoi fare per campare e avere 50 euro in tasca, soprattutto se i tuoi genitori non possono darteli.
Voglio che se ti propongano di andare a teatro o al cinema, il ragazzo di borgata non si senta un disadattato perché non sa nemmeno come ci si comporta in quei contesti, perché nel tuo quartiere un cinema o un teatro non ci sono e quando ci sei stato ci sei stato in via eccezionale con la scuola o l’associazione di turno che si è preoccupata di fare tutto al posto tuo e a te toccava solo sederti e guardare, una cosa ovviamente sempre scelta da altri, senza neanche sapere dove si fa il biglietto.
Voglio che ogni ragazzo e ogni ragazza abbia una biblioteca dove poter imparare le parole per poter pretendere quello che gli spetta, senza doversi affidare al politico di turno che gli risolverà un problema, magari spicciolo e magari chiedendo il voto in cambio, con qualcuno che gli spieghi che i diritti non sono favori e che devi poter fare le cose da solo, se vuoi. Senza intermediari.
E voglio che a batterci per tutto questo siamo tutti e tutte assieme. Sentendo queste cose come urgenze tanto quanto la sacrosanta sicurezza in giro la sera. Perché questa è la sicurezza che cercano le madri e i padri che dignitosamente provano a fare del proprio meglio nei quartieri popolari, non riuscendoci da soli. Perché di questo parliamo quando parliamo di interventi sociali ed educativi. Non di aria fritta. Tutte cose pratiche, concrete. Esattamente come il sangue che ciclicamente, purtroppo, i figli dimenticati di Palermo vengono a spargere in mezzo al nostro quieto e finto benessere.