PALERMO – Nessuno sconto di pena. In appello regge in toto la ricostruzione della Procura. Il boss Massimo Mulè è stato condannato a 6 anni, il cognato Vincenzo Di Grazia a 5 anni e 4 mesi. Il processo riguardava il presunto controllo mafioso dei buttafuori nelle discoteche. Ai due imputati resta il ricorso in Cassazione.
Per questo processo entrambi sono a piede libero, dopo essere stati scarcerati dal Tribunale del Riesame che aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare. Mulè in carcere c’è tornato successivamente per mafia, così come il padre Francesco, ed è stato condannato 11 anni e 4 mesi in appello perché avrebbe partecipato alla riorganizzazione di Cosa Nostra, pianificata nella riunione della cupola del 2018.
Nel corso dell’interrogatorio di garanzia aveva respinto le accuse. È vero, Andrea Catalano, uno degli imputati processati e condannati con il rito ordinario, assoldava Di Grazia per il servizio di sicurezza, ma il loro rapporto era precedente al matrimonio con la sorella. Mulè giurò di non avere imposto e neppure sponsorizzato il cognato. Che non aveva certo bisogno di essere presentato ad una persona che conosceva da tempo. In ogni caso il parente non aveva ricevuto alcun trattamento di favore. Era uno dei tanti addetti alla sicurezza al “Reloj”, che allora era una delle discoteche più in voga della città.ù
“A me non m’interessa niente, tu mi devi mettere a Vincenzo (Di Grazia, ndr). Chi ti resta fuori, ti resta fuori”, diceva Catalano alla proprietaria. Ed ancora: “Ti spiego una cosa meglio… Tu hai due figli, sono la tua vita, vero è? Il Signore ci deve guardare i tuoi figli…”.