PALERMO – Si mossero i capimafia per recuperare il credito. E usarono le maniere forti. Un ambulante fu picchiato a colpi di casco. Protagonista della vicenda è stato Giovanni Quartararo, titolare di una catena di negozi di scarpe e considerato a disposizione del clan. Lo hanno arrestato lo scorso luglio con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Avrebbe garantito “un canale di comunicazione riservato” fra i boss di Resuttana. L’inchiesta che ha fatto scattare un nuovo blitz svela un retroscena inedito.
Poco prima di essere arrestato, tra maggio e giugno scorsi, Quartararo aveva fornito scarpe per diecimila euro ad un ambulante che, però, aveva pagato solo 3.200 euro. Il commerciante avrebbe chiesto l’intervento di Carlo Giannusa, arrestato per mafia e fratello del reggente della famiglia mafiosa di Resuttana.
“Si è fottuto diecimila euro di scarpe – diceva – non ti preoccupare che in una settimana… ti faccio avere i soldi e invece… siamo fermi a tremila e duecento euro… da venerdì che mi prende per fesso… e neanche mi risponde più al telefono”. Quartararo era andato a trovarlo mentre lavorava: “Io parlando con te, sai che ho fatto? Ho posteggiato in viale Francia… scusami in via Campania, perché c’è il mercatino qua, in via Campania. No? Siccome stavo andando al negozio, verso le dieci… minchia, ero nervoso… ho fermato la vespa e ho detto: vediamo se lo trovo qua. E mi sono fatto tutto il mercatino, perché… qualche due settimane fa l’ho visto qua a lui, con le sponde aperte che stava vendendo le scarpe… ma non l’ho trovato”.
Fu allora, e lo raccontava ad un amico, che Quartararo decise di rivolgersi a Giannusa: “Gli ho detto: non mi risponde più al telefono ma già da martedì. Dice: ora ci vado a casa. Perché neanche a lui gli ha risposto”. Passavano i giorni, ma niente pagamento: “Cioè… lui si deve andare a cercare i soldi ora. Il cornuto si va a vendere il furgone, si va a vendere la macchina di sua moglie, si va … si va a vendere l’oro, si va a vendere quello che si deve vendere, perché non… non si discute così”.
Infine entrò in gioco Sergio Giannusa per dare la caccia a “Giuseppe u Gigolò” (così è soprannominato l’ambulante, definito anche “tossico”). Il reggente confidava al titolare di un panificio che “gli hanno levato il furgone, gli hanno levato tutte cose, gli hanno levato pure la macchina, gli hanno rotto le corna a colpi di casco…”.
A giugno Sergio Giannusa spiegava all’amico panettiere, che aveva contribuito a rintracciare il padre del debitore, i termini dell’accordo raggiunto: “… c’è andato il padre. Gli fa mio fratello… dice: il libretto della pensione se lo porta…viene quel cristianu e dice: dieci giorni? – No, gliene dò diciotto. Fra diciotto giorni mi deve portare i soldi”. Il padre dell’ambulante aveva lasciato in garanzia il suo libretto della pensione.