PALERMO – La confisca è nulla. Il processo è da rifare. Contro Silvana Saguto ha avuto ragione persino un capomafia come Cesare Lupo, boss di Brancaccio che sta scontando al 41 bis una condanna a 28 anni di carcere.
Il processo deve ripartire da capo. I beni, e sono tanti, restano congelati ma tutto ciò che è stato fatto fino alla confisca di primo grado vale carta straccia. Come ha sostenuto l’avvocato Riccardo Bellotta è stato violato il diritto di difesa.
È stata disattesa la richiesta di Lupo di partecipare alle udienze. Il boss di Brancaccio spediva lettere e fax per chiedere di partecipare di presenza o in video collegamento al processo, ma il tribunale di Palermo, allora presieduto da Saguito, rispondeva picche. Sia quando Lupo era detenuto nel carcere di Vigevano, sia nel periodo di detenzione al Pagliarelli di Palermo.
Prima che esplodesse lo scandalo corruzione che ha portato all’arresto e alla condanna di Saguto, gli avvocati protestavano per la gestione dei processi da parte dell’ex presidente radiato dalla magistratura.
Il collegio “disponeva non farsi luogo alla traduzione del proposto (viene definito così colui per il quale viene proposta la misura patrimoniale e personale ndr) in quanto il medesimo poteva rendere dichiarazioni al magistrato di sorveglianza”.
La confisca riguarda il “Bar Chiavetta”, così si chiamava un tempo il punto ristoro all’interno dell’ospedale Buccheri La Ferla, la ditta individuale di Benedetta Salerno che gestiva il bar “La Cuccagna dei Mille”, in corso dei Mille; il Bar Ammiraglio di corso dei Mille; la Ag Trasporti con sede nella stessa via, la Cs Cooperativa Trasporti e Logistica di via Paratore.
Ed ancora macchine, autocarri, appartamenti, negozi e box a Brancaccio. A svelare la mappa degli affari di Lupo era stato il cognato, Fabio Tranchina, una volta divenuto collaboratore di giustizia.
Nel 2011 Lupo tornò in carcere. Le indagini della sezione Criminalità organizzata della Squadra mobile lo piazzarono assieme ad Antonino Sacco e Giuseppe Faraone nel triumvirato che dettava legge a Brancaccio. Un gradino più in basso c’era Giuseppe Arduino, tornato di recente in carcere.
Mentre scontava una prima condanna per mafia nel carcere di Catanzaro, Lupo trovò tempo e voglia di laurearsi in Scienze giuridiche. Titolo della tesi: “Le estorsioni”. Terminata di scontare la pena, nel 2009, tornò a dirigere il clan.
Nel febbraio 2011 Giulio Caporrimo, reggente del mandamento di San Lorenzo, decise di convocare il gotha della mafia palermitana in ristorante-maneggio allo Zen. L’obiettivo era serrare le fila di un’organizzazione fiaccata dagli arresti. E Lupo non poteva mancare all’appuntamento.
Il collegio delle Misure di prevenzione presieduto da Raffaele Malizia nel 2019 dispose la confisca e la sorveglianza speciale da scontare dopo la condanna. Anni prima, però, era stato violato il diritto di difesa e il processo deve ripartire da zero. Lo ha deciso nelle scorse settimane la Corte di appello presieduta da Aldo De Negri.