Palermo, le accuse dei pm al boss Micalizzi e a Mario Mancuso

Soldi, lavori e gelati: “L’imprenditore arrestato era in affari con il boss”

Mario Mancuso, Michele Micalizzi: dalla scalata al fallimento di Brioscià

PALERMO – I clienti apprezzavano gusto e qualità. Non potevano certo immaginare che dietro quei coni gelato, così ha ricostruito la Procura di Palermo, ci sarebbero gli interessi di un potente capomafia. Un volto noto, Michele Micalizzi, uno di quelli che una lunga detenzione – oltre vent’anni di carcere – non ha rieducato.

Le accuse a Mancuso

Mario Mancuso, 44 anni, avrebbe contribuito a rafforzare il potere del boss di Tommaso Natale. Il procuratore Maurizio de Lucia, l’aggiunto Annamaria Picozzi e il sostituto Federica La Chioma lo considerano un concorrente esterno all’organizzazione mafiosa, per i cui interessi avrebbe messo a disposizione le proprie imprese.

Mancuso è finito in carcere. Una nuova ordinanza di custodia cautelare è stata notificata a Micalizzi, che in carcere c’era tornato nel 2023 e che tramite il figlio Giuseppe, pure lui già detenuto, avrebbe contribuito alla scalata imprenditoriale del marchio Brioscià che ha fatto la fortuna di Mancuso. Nel 2021 il fallimento con l’ipotesi della bancarotta fraudolenta e la nascita del nuovo marchio Sharbat transitato dalla MM44 80 srls alla ditta individuale Basile Giuseppe.

“Soldi al boss e non solo”

Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Lirio Conti si ipotizza che Mancuso avrebbe messo a disposizione di Michele Micalizzi, tramite il figlio Giuseppe, parte dei profitti di Brioscià e Sharbat.

Non solo: anche i mezzi e il personale della Magi srl, la società che gestiva i punti vendita Brioscià, sarebbero stati utilizzati “per garantire la cornice di sicurezza necessaria allo svolgimento di incontri riservati fra esponenti del mandamento mafioso”.

I soldi invece sarebbero serviti per finanziare le famiglie di alcuni uomini d’onore come Giuseppe Lo Cascio e pagare le trasferte dei parenti che si spostavano nel carcere di Terni per i colloqui.

Alla Magi sarebbero stati assunti due cugini del capo mandamento di San Lorenzo, Giulio Caporrimo, mentre i lavori per ristrutturate i punti vendita sarebbero stati affidati ad imprese riconducibili a Francesco Palumeri che del mandamento è stato il reggente.

La bancarotta

Per le questioni societarie, fallimento incluso, sono finiti sotto inchiesta anche la moglie di Mancuso, Mariangela Gottuso, il fratello Giovanni e Maria Assunta Gnoffo. Quest’ultima avrebbe lavorato “in nero” alla Magi, una sorta di presenza ombra di Micalizzi all’interno delle gelaterie Brioscià.

Riferiva ogni cosa, incassi inclusi, al boss (“Ora parlo con lo zio”, diceva la donna) o alla moglie Margherita Riccobono (figlia di don Saro Riccobono, uno dei padrini perdenti della vecchia mafia spazzata via dai corleonesi). Mentre parlavano i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria registravano le conversazioni.

Moglie del boss e figlia del padrino

Margherita Riccobono, stando alle intercettazione, sembrava avere una certa vice in capitolo: “Non ha nulla da venirci a fare a Partanna, ora si deve fermare nelle gelaterie… e perché decidevo io così”, diceva di Mancuso.

Vedi che ci servi tu alla cassa là perché ha paura che gli altri rubano“, diceva la donna parlando con Assunta Gnoffo e riferendosi al marito Micalizzi. E Gnoffo faceva il resoconto degli incassi: “Una brioche sono due euro 50. Di solito sono sempre due, tre cioè difficilmente viene una persona a prendersi un gelato. Di solito viene sempre con un’altra”. Era il 2018, i prezzi oggi sono aumentati.

Alla Magi lavorava anche Giuseppe Micalizzi che prendeva “150 euro a settimana senza fare niente” e avrebbe usato usato i dipendenti come se fossero suoi “autisti” personali. Secondo l’accusa, considerava la società come casa propria.


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