La designazione di Palermo quale capitale della cultura è un riconoscimento prestigioso che denota la presenza di una traccia di vita, dove prima c’era un elettrocardiogramma piatto. Ed è un fatto di cui tenere conto nel giudizio complessivo sulla politica della città e su chi la governa.
Ma poi, per dare sostanza al contorno, bisogna rispondere alla domanda successiva: se la cultura vivifica, promuove rinascita, allarga la platea degli uditori della bellezza e crea sviluppo, quanta ce n’è? Quanta ce ne sarà? Qual è il contesto dietro le quinte che ospita la scena di ciò che si sta subito rivendendo come il frutto di una rinnovata speranza?
Chi sono gli operatori culturali palermitani di vaglia, coloro su cui puntare a occhi chiusi? Due i nomi che salgono al proscenio. Il primo è quello di Francesco Giambrone, protagonista del rinnovato fulgore del teatro Massimo. Uomo vicinissimo al sindaco, ha intrapreso, ha sperimentato, ha fatto politica, si è circondato di persone capaci.
Volendo azzardare la parafrasi, se Palazzo delle Aquile gestisse i problemi della comunità con la stessa verve con cui il sovrintendente ha suppurato le piaghe del Massimo, vivremmo in una città migliore. Francesco Giambrone rappresenta uno dei volti più schietti dell’establishment – perché davvero è potentissimo – ed è riuscito a spendere il suo credito soprattutto in eventi visibili.
L’altro nome che viene in mente è quello di Gianni Puglisi. Per meriti accademici, certo, ma soprattutto per una qualità che spicca più delle altre: l’onnipresenza. L’ultimo elenco aggiornato, tra incarichi trascorsi e attuali, ha la parvenza di un gigantesco curriculum (LEGGI QUI). Se si parla di ‘operatori culturali’ – in un’accezione diversa rispetto a Giambrone – il professore Gianni Puglisi rientra pienamente nella casistica.
Chi altri ha trasformato la cultura in rendita di risultato o di istituzione? Chi appartiene all’albo di coloro che – per piglio manageriale, per pedigree accademico, per prebenda o notorietà – possono vantare una discreta fama oltre via Oreto e dintorni? La risposta offre il reflusso di un sistema chiuso, di un potere che si alimenta col potere – sotto un ferreo controllo – e non lascia spazi agli outsider, ammesso che si siano. Non ci sono aperture, né feritoie. Può una tale impenetrabile e solitaria cortina ambire al titolo di capitale proclamata sul campo, non per mera discrezione di una giuria che non è apparsa ostile?
Chi sono gli intellettuali cittadini, cioè il corpus di scrittori, teatranti, filosofi e liberi pensatori che dovrebbero comporre la ‘cultura palermitana’? Roberto Alajmo, Davide Enia ed Emma Dante, d’accordo. Possono piacere o non piacere, ma anche loro sono orecchiati oltre le colonne d’Ercole di via Oreto.
E i compagni di viaggio? O non ci sono, oppure vivono in una condizione di semi-clandestinità, alle prese con mecenati per cui editare un libro e sfornare un calzone fritto è comunque la stessa impresa. L’oro che luccica si annida tre le pieghe di un’oscura compagnia di talentuose figure che tribolano, su palcoscenici di fortuna, da una mancetta all’altra, e che ovunque, ma non qui, sarebbero il sale della terra.
Dov’è l’anticonformismo che dovrebbe reggere l’azzardo della diversità? Qui quasi nessuno sa scrivere e leggere con uno stile di rottura. Siamo fermi alla Santuzza, alle panelle e alla munnizza quale metafora suprema. Tutto è antimafia da salotto, ammuffita retorica della palingenesi o consunto paradigma della rassegnazione.
Dov’è la voce nuova per tempi nuovi? Dov’è il giovane Salvo Licata? Forse ha già sperimentato la sepoltura dell’indifferenza e delle convenienze. La città celeste del culturame sa infatti essere spietata con chi non canta in coro, a presidio dei suoi interessi. Gli nega vitto e alloggio, lo scippa della rabbia e della lingua. Tutto qui si muove in ossequio al balletto carsico dei potenti, altrimenti non ha i mezzi, neanche per respirare. Tutto qui è sottomissione, presto o tardi che sia.
E’ dunque giusto essere moderatamente orgogliosi di una targa sulla porta, purché abbia il peso delle cose, non l’arredo dell’apparenza, purché non sia lo spaventapasseri che sembra vivo solo dall’alto, mentre è un pupazzo impagliato. Riuscirà Palermo a cambiare se stessa, il suo linguaggio e i suoi orizzonti? Fortissimamente lo speriamo. Realisticamente ne dubitiamo.