Alla fine ho capito una cosa. Ho capito che la tragedia della Sicilia – un governatore detenuto per mafia, un altro processato per mafia e quest’ultimo ammalato grave d’antimafia – non la risolvi facendo ordine nel mazzo di carte, ogni carta col suo seme e ogni seme col suo re, ma sparigliando. Non per il gusto ma per la libertà e la necessità di farlo. Provando a superare due zavorre che il nostro tortuoso ragionare sulla Sicilia si porta dietro da sempre: il sentimento obbediente dell’appartenenza e quello orgoglioso e petulante della nostra diversità.
Perché quest’idea malata che tutti dobbiamo appartenere, tutti figli di tessere, parrocchie, partiti, circoli, antimafie, sezioni, correnti, destre, sinistre, tutti giudiziosi e devoti pure quando le parrocchie sono sconsacrate e i partiti mascariati, ecco, questa frenesia d’appartenenza è il vero alibi dei siciliani. Per noi appartenere non vuol dire stare da una parte ma stare dentro, al riparo, nascosti, protetti, ammucciati. E se oggi vi scrivo che non mi sento più di appartenere a nessun mazzo di carte, non ve lo dico per piaggeria: è un fatto. Perfino anagrafico. Ho 58 anni e i compagni di strada, d’avventura e pure di errori me li voglio scegliere senza chiedere permesso a nessuno, senza ascoltare messe cantate sul politicamente corretto. E senza celebrare il rito delle appartenenze. Sto ai fatti, e ai comportamenti: mi bastano quelli.
Per cui mi trovo bene con Pietrangelo Buttafuoco perché buttanissima Sicilia è un bel grido di rabbia e d’amore in cui io mi ritrovo, grido libero come libero da riverenze è l’uomo che l’ha pensato. E ho gratitudine per Fabrizio Ferrandelli perché in un tempo di pensieri corti e chiacchiere lunghe, proclami e garrule bandiere, questo giovanotto è il primo e l’unico che abbia avuto il coraggio di andarsene sbattendo la porta da quel tristo circolo dei nobili che è ormai l’Ars di Sicilia.
E con loro condivido il bisogno di consumare la più alta delle bestemmie: noi siciliani che diciamo no alla Sicilia intesa come luogo di specialissima autonomia, di diversità di razza e di doveri, l’autonomia che si è fatta pennacchio più bandiera, pernacchia più che canto. L’autonomia che ci ha reso orfani e privilegiati, figli di un dio maggiore, autorizzati a fottercene sempre e bellamente di ogni sentimento di responsabilità. Perché noi siciliani non siamo diversi dagli altri: ci consideriamo diversi. Ed è qui l’errore.
Ecco, io che non ho più tessera di partito da tempo e che non mi considero diverso da nessuno, io che questa Sicilia non la voglio compatire né proteggere ma sfidare a trovare dentro di sé (e non in un pezzo di carta, in una norma di legge) le ragioni della propria sopravvivenza, queste cose semplici e brevi che vi dico le sento profondamente mie. E nostre. Senza bisogno d’alcun pennacchio.