PALERMO- Qui, in questa periferia che racconta la desolazione e la speranza di Palermo, semplicemente restando se stessa, due storie si sono incontrate. E non potevano essere più lontane. Qui ci sono girandole colorate che sventolano, malgrado tutto, sull’orlo di balconi prigionieri. Ci sono finestre una addosso all’altra, porticine da condominio dei sette nani e figure in transito, di qua e di là, con l’espressione furtiva dei poveri che nessuno raggiunge.
A uno dei piani di un palazzo anonimo, ecco Anna e Murvet. Palermitana, la prima, rom, kosovara del campo in dismissione, la seconda. Ora vivono nella stessa casa e hanno imparato – non ditelo ai militanti di ‘prima gli italiani’ – a stare insieme, come persone. Persone e niente altro. Storie lontanissime che più non si potrebbe. Eppure si sono riunificate qui, nella periferia delle girandole e dei balconi malinconicamente appesi a una facciata di intonaco scrostato, in attesa di un clima sereno.
Anna Nicotra ha sessant’anni, un marito e un figlio invalidi. Il suo Antonio, che ha poco più di vent’anni, si sta laureando in Scienze della comunicazione. Aveva un cammino discreto, Anna, ma i tempi insegnano che nessuno si salva da solo, se la girandola ruota al contrario. La crisi economica. Uno sfratto. Qualche notte in albergo pagata da generosi benefattori e adesso una casetta messa a disposizione da un’altra centrale della bontà.
Murvet Iljazi, 44 anni, qualche figlio che fa capolino dalle stanze, è una figura storica del campo rom della Favorita che si sta svuotando. Anche lei si è trovata in quell’appartamento periferico che prevede la coabitazione con Anna, precedentemente insediata. Non è mai semplice convivere, ma le due donne si sono parlate, hanno raggiunto un’intesa di comportamenti e confini che, infine, è sbocciata nella comunione spontanea di spazi, idee, sentimenti. E adesso lasciano che si scatti la foto di qualcosa che somiglia un po’ alla felicità sul divano del soggiorno.
Anna racconta: “Ci siamo trovati in mezzo alla strada da un giorno all’altro. Un amico ci ha aiutato con la sistemazione in albergo. E siamo qui”. Antonio, lì accanto, ascolta. Ha un problema complicato e tanta buona ironia. Ridacchia, mentre spiega: “Mi sono preoccupato quando ho notato che uno dei tantissimi medici con cui ho avuto a che fare, quando parlavamo, cercava la mia patologia su wikipedia”. Anna, invece, ha un sorriso più nascosto, ricucito dentro una ferita.
Una famiglia di persone dignitose, quelle che si vergognano a chiedere aiuto. “Faccio tutto per mio figlio, è l’investimento umano più importante per me e mio marito. Mi scuso se lui non è qui, ma soffre troppo”. Anna continua, si infervora, con fierezza: “Mi arrabbio con quelli che occupano abusivamente gli immobili, perché tolgono un alloggio a chi avrebbe bisogno ed è in graduatoria. Capisco tutto, non l’illegalità. E penso che la politica a riguardo sia tutta sbagliata. Ho lavorato, ho pagato le tasse. La casa è un mio diritto, non un’elemosina, né una concessione”.
Murvet doveva andare in via Felice Emma, quando è scoppiata la polemica sulle assegnazioni ai rom. Per il momento ripiega quassù. Ha visto abbattere la sua baracca, dopo anni, con un miscuglio di cose nel cuore: l’amarezza di chi dice addio, la gioia di chi va incontro a una via migliore. “Non rimpiango la mia vita di ieri ma non la dimentico – dice -. Era dura, ma bella e poi era la mia. Non mi sono mai lamentata. Non mi piace la cattiveria di certa gente. Noi non arrubbiamo i figli a nessuno, io non avrei mai fatto un’occupazione abusiva, preferisco aspettare il mio turno. Voglio un lavoro vero, ma ho paura del razzismo, perché in questi anni è aumentato. Tu lo vuoi un caffè?”. Ora è il momento della foto. Si stringono sul divano. Anna stende le mani come per abbracciare. Stavolta tutti sorridono come se la felicità fosse davvero raggiungibile.
E come appaiono stranieri l’odio dei social, il pregiudizio, la violenza dei ciechi che guardano la pelle, dimenticando il cuore, nel tempo in cui nessuno si salva da solo. E come sembra distante tutto il male che c’è stato fino a ieri, qui, in questa periferia, di balconi che mettono tristezza, di girandole che, malgrado tutto, sventolano ancora.