PALERMO – Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di “professionisti” travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti, magistrati “duri e puri”, la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto. A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui “professionisti dell’antimafia”.
Antimafia da vetrina
Con la sua profetica lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva dei nostri giorni, in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici magistrati ed avvocati sulla gestione dei beni confiscati, Sciascia, dal suo buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi di Agrigento, provava a smascherare i rischi dell’impostura, di una antimafia da vetrina. E ne aveva titolo, lui che la mafia l’aveva fatta diventare caso nazionale negli anni Sessanta con saggi e romanzi, sbattendola in faccia ad una opinione pubblica distratta, ad una classe dirigente spesso connivente, indicando la strada da perseguire, quella dei soldi, delle banche, delle tangenti.
La caduta dei miti
Trent’anni dopo l’impostura è drammaticamente confermata dalla “caduta dei miti”, come la definisce l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione nel suo libro “I tragediatori”. E’ il caso di Silvana Saguto, la magistrata dei beni confiscati, del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, beccato con una tangente da 100 mila euro accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi. Incriminati il direttore di TeleJato Pino Maniaci per estorsione e un altro giornalista di Castelvetrano come prestanome di boss. Mentre non si placa la lite interna a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre. E si è in attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta tutta da chiarire dopo due anni sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante.
Il giorno della civetta
Ma, quando ancora la trincea di Palermo era insanguinata dall’attacco dei boss e mentre qualche buon risultato già arrivava dal maxi processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata anche da un gruppo di giovani (e meno giovani) costituiti in “Comitato antimafia”, decisi a rovesciare addosso allo scrittore un nomignolo coniato ne “Il giorno della civetta”. Si, lo definirono ”quaquaraquà”. Prendendo spunto dalla classificazione dell’umanità richiamata nel confronto fra il padrino di quel libro, don Mariano Arena, e l’uomo dello Stato, il capitano Bellodi. Molti lo difesero, ma scattò una delegittimazione di Sciascia, criticato anche da Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, pronti a protestare contro un articolo interpretato come un attacco a Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento all’allora sindaco di Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’“immagine” personale. Una spinta a far prevalere scelte concrete sugli imbellettamenti superficiali della città. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti e non le parole, che “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”. E, forse, Orlando ha anche apprezzato l’indicazione, con gli anni.
Borsellino a Racalmuto
Il secondo bersaglio non era Borsellino. Come Borsellino capì. Nel mirino c’era il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, avendo fissato delle regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la poltrona di procuratore a Marsala, fu scelto lo stesso Borsellino al posto di un suo collega, virtualmente con più titoli, stando a quelle regole. Borsellino capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991 presentandosi ad un convegno nel paese di Sciascia, insieme con Falcone e con l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Chiarimmo con Sciascia. L’uscita mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool”. E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Perché quella stessa elastica interpretazione fu utilizzata all’interno della magistratura per impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione. A distanza di trent’anni, tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare dall’articolo ogni margine di equivoco. Proprio per evitarne un uso strumentale. E Sciascia ebbe modo di parlarne con Borsellino, a Marsala, fra testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo Scimè.
Gli studenti pentiti
Si scatenò però un attacco astioso all’uomo, perdendo di mira la questione posta, e mischiando così le carte con quel nomignolo. Come ammettono oggi tanti di quei giovani coinvolti nel Comitato antimafia. Un po’ pentiti. E’ il caso di studenti come Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a Messina, il secondo professore di diritto penale, un’autorità in materia antimafia con il suo maestro Giovanni Fiandaca, autore di un libro fresco di stampa, “La mafia è dappertutto. Falso!”. Una mazzata agli impostori caduti da quel palcoscenico, commenta: “L’antimafia si è fatta potere”. Ed ancora: “Lui guardava con le lenti della profezia, più avanti, noi calati nel presente fino ai capelli eravamo una sparuta minoranza. Non potevamo prevedere gli effetti connessi ad una antimafia che si faceva essa stessa potere”.
Le nuove imposture
Riflessioni fatte proprie da un altro leader di quel Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto, figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex senatore: “Una lucidità profetica, quella di Sciascia”. Stessa posizione di Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato, poi consigliera comunale con Orlando, adesso ben lontana dal sindaco: “Sciascia vide dove nessun altro poteva vedere. In quel momento storico considerammo l’uscita infelice. Ma quel ‘quaquaraquà’ ci scappò di mano…”. Vergato da un giovane racalmutese, Franco Pitruzzella, poi arruolato nel gruppo dei collaboratori dei magistrati impegnati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe De Blasi, allora da 110 e lode, adesso in questura, e Giovanni Pampillonia, capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia.