PALERMO- “In questo processo, durato quasi cinque anni, è emersa la più complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia tra gli anni Ottanta e Novanta. Una storiona cui una parte delle istituzioni, per un’inconfessabile ragione di Stato, ha cercato e ottenuto il dialogo con l’organizzazione mafiosa nel convincimento che quel dialogo fosse utile a fermare le manifestazioni più violente della criminalità e a ristabilire l’ordine pubblico. Questo è un processo drammatico in cui lo Stato processa se stesso”. Così il pm Nino Di Matteo ha iniziato la requisitoria del processo al generale dei carabinieri, Mario Mori, e al colonnello Mauro Obinu, per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra che si svolge davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo.
Secondo l’accusa, i due avrebbero in qualche modo aiutato la latitanza del capomafia Bernardo Provenzano. “Non sosteniamo che Mori e Obinu abbiano dialogato con la mafia perché già collusi – ha spiegato Di Matto -. Mori, e per effetto il suo sottoposto colonnello Obinu, obbedendo a indirizzi di politica criminale per contrastare la deriva stragista, ha ritenuto di trovare un rimedio nell’assecondare la prevalenza dell’ala moderata della mafia, quella refrattaria alla strategia di contrapposizione frontale allo Stato realizzata con omicidi eccellenti ed eclatanti. Era necessario per questo garantire la latitanza a Provenzano”.
Le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il consigliere del presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio sono state citate dal pm Nino Di Matteo, nella sua requisitoria nel processo ai militari del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, come “uno dei tanti tentativi di strumentale inquinamento della prova in questo procedimento”.
In una delle chiamate, l’ex ministro è preoccupato che ci sia un accanimento dei pm che avevano chiesto il confronto in aula con l’ex guardasigilli Claudio Martelli. “Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio chiamando il consigliere del Presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato per evitare il confronto – ha spiegato Di Matteo – E’ il processo in cui testi particolarmente qualificati come ministri o membri delle forze dell’ordine hanno reso dichiarazioni contraddittorie e incompatibili. A molti è venuta la memoria solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino”.
Le dichiarazioni del confidente Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Caltanissetta, che secondo l’accusa avrebbero potuto portare all’arresto del latitante Bernardo Provenzano già nel 1995, sono state al centro della prima parte della requisitoria del pm Nino Di Matteo, nel processo ai militari del Ros Mario Mori e Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato. “Quando Luigi Ilardo ricopriva ruolo di reggente Caltanissetta – ha spiegato -, intanto riferiva al colonnello Michele Riccio i legami e gli affari della mafia. Quella di Ilardo è una storia davvero unica nel panorama criminale del nostro Paese, per certi versi incredibile. Ilardo fu ucciso a maggio 1996, cinque giorni prima del suo interrogatorio formale davanti alle autorità giudiziarie che lo avrebbe fatto diventare collaboratore di giustizia. Un epilogo tragico e avvolto nel mistero. In quel momento la collaborazione di Ilardo avrebbe portato alla consacrazione di quei rapporti che vedevano protagonista anche Marcello Dell’Utri e la formazione del partito Forza Italia. Nel 1995 si poteva scardinare quel sistema provenzaniano che dominò invece incontrastato le strategie del potere mafioso in Sicilia.
La chiave per aprire la porta della verità è stata invece gettata lontano”. Riccio ha riferito durante il processo che il generale Mario Mori gli disse di non inserire nel rapporto ‘Grande Oriente’ i nomi di tutti i politici citati dal confidente Luigi Ilardo. “Tra questi – ha detto Riccio – c’era anche Marcello Dell’Utri: una persona importante, molto vicina ai nostri ambienti. Io allora ritenni l’inserimento del suo nome un pericolo. Se lo metto, pensai, succede il finimondo”. Il pm Di Matteo ha ribadito che “qui non si processa il Ros come struttura, ma una filiera di ufficiali che parte da Mori che obbedisce a logiche proprie di un servizio di sicurezza. Filiera che ha finito per assumere contorni di un gruppo parallelo al Ros che ha perseguito obiettivi di politica criminale. Questi militari erano il braccio operativo di Mori, a cui obbedivano scavalcando le gerarchie intermedie. Una squadra di fedelissimi di cui Mori ha disposto che il generale ha sempre protetto, promosso, come Ierfone, Damiano, Obinu, De Caprio, Scibilia, De Donno. Di questa cordata, allestita da Mori, loro fanno ancora parte”.
(Fonte ANSA)