Quel giudice che cercava le prove |sotto un costante "fuoco amico" - Live Sicilia

Quel giudice che cercava le prove |sotto un costante “fuoco amico”

L'eredità di Falcone e quell'insegnamento dimenticato. Da "Panorama". 

L'anniversario
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«Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto, senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza, significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Meglio è, dopo avere indagato su numerose persone, accontentarsi di perseguire solo quelle due o tre raggiunte da sicure prove di reità».

Giovanni Falcone

Nella tutt’altro che sterminata pubblicistica che porta la firma di Giovanni Falcone, questo passaggio di Cose di Cosa nostra (pagina 155 dell’undicesima edizione Bur del 2010) è sempre, sistematicamente sfuggito a tanti magistrati, soprattutto a quelli che, specie dopo la sua morte, hanno amato, con vezzo ingiustificatamente amicale, chiamare il giudice ucciso a Capaci semplicemente «Giovanni».

Il povero «Giovanni» è stato così trasformato, suo malgrado, assieme all’altro incolpevole «Paolo», cioè Borsellino, assassinato in via D’Amelio, in un fiume di parole e di retorica (altrui) e di pubblicistica (altrui), che ha fatto fortuna sui loro nomi, nell’arco di 25 anni, per fini di carriera, potere, denaro. E oggi, a parte il diluvio della retorica, di quella lezione, del cosiddetto metodo Falcone, rimane poco.

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Falcone applicò alla lettera, pagandolo a carissimo prezzo, ciò che pubblicò, la prima volta nel 1991, nel libro scritto con Marcelle Padovani, in quella poco famosa e spesso saltata a pie’ pari pagina 155, forse riferita anche alla vicenda che nel 1989 prima gli era costata il fuoco amico (si fa per dire)di Leoluca Orlando, di Alfredo Galasso e dell’antimafia dura e pura dell’epoca: le pseudoconfessioni del falso pentito Giuseppe Pellegriti su Salvo Lima mandante degli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Con coraggio e determinazione, andando controcorrente, in un momento in cui la piazza invocava la testa dell’eurodeputato dc, pur beccandosi insulti di ogni genere («venduto» fu il più gentile), il giudice spiccò immediatamente un mandato di cattura contro Pellegriti.

E i suoi eredi cosa hanno saputo fare? Le castronerie di Massimo Ciancimino, ad esempio, non sono state mai realmente arginate: è vero che anche il figlio di don Vito è finito in carcere per calunnia, dopo avere realizzato un falso patente quanto marchiano, ma il processo sulla Trattativa Stato-mafia è nato e si regge in gran parte sulle sue dichiarazioni strampalate. «Massimuccio», pubblicamente e discutibilmente abbracciato, in via D’Amelio, dal fratello del povero Borsellino, Salvatore, ha dipinto il padre, l’ex sindaco mafioso del sacco edilizio di Palermo, Vito Ciancimino, quasi come un «amico» – pure lui! – di Falcone.

L’altro esempio evidente di queste distorsioni è Vincenzo Scarantino, il falso pentito che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all’ergastolo per la strage di via D’Amelio e poi scarcerate dopo quasi vent’anni di carcere duro con tante scuse. Lui merita un capitolo a parte: per adesso basta ricordare che se Falcone impiegò un paio di giorni a sbugiardare Pellegriti, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato 18 anni, per cominciare, rimettendo in libertà i condannati, e ventitré per smascherare con una sentenza un picciotto di borgata come Scarantino, che peraltro più volte aveva ammesso di avere mentito.

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Far parlare Falcone, oggi, sarebbe scorretto. E allora meglio dare la parola ai numeri: se il maxiprocesso venne imbastito e avviato nell’arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986-30 gennaio 1992), il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse, portando fin quasi ai giorni nostri, ad esempio, la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri. Certo, qualcuno dice che condannare la mafia militare è più semplice di ingabbiare i cosiddetti colletti bianchi: ma ditelo a Falcone e Borsellino, che era facile, tra il 1985 e il 1986, portare alla sbarra 475 persone a Palermo, con corti d’assise formate da giudici togati e popolari siciliani e, dopo tre processi, ottenere 12 ergastoli e 258 condanne, per 1576 anni complessivi di carcere. Il processo Andreotti (un solo imputato, assolto e in parte salvato dalla prescrizione) è durato più di nove anni, Contrada (condannato a dieci anni, con bacchettata postuma nel 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo alla giustizia italiana) dal 1994 al 2007, Carnevale (assolto) nove anni, Mannino (assolto) 13 anni, Dell’Utri (record) 17 per sette anni di carcere.

La tecnica dei processi infiniti fa sì che Dell’Utri e Mannino di professione facciano gli imputati: l’ex manager Fininvest, pur essendo stato definitivamente scagionato per i fatti avvenuti dal 1992 in poi (la politica, la nascita di Forza Italia, la discesa in campo di Berlusconi, secondo la Cassazione non furono condizionati da Cosa nostra), e l’ex ministro, assolto dall’accusa di concorso esterno, sono oggi di nuovo sotto processo per la trattativa, assieme all’ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde Mario Mori, pure lui da oltre vent’anni sotto processo e finora sempre assolto. Processo che non sfugge alla regola dell’infinito applicato alla giustizia ed è ben lungi dalla conclusione del primo grado di giudizio.

L’unico personaggio «eccellente» condannato a Palermo in tempi celeri, e per fatti successivi al 1992, è l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che ha già scontato la pena: i suoi inquisitori si chiamavano Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Maurizio De Lucia. Hanno fatto tutti carriera, più o meno velocemente. Ma lontano da Palermo, città che come poche riesce a riconoscere da lontano e a cannibalizzare i magistrati che sanno il fatto loro.

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Giovanni Falcone, che costruì e vinse il «maxi», non fece carriera nella magistratura: molti suoi colleghi lo vedevano come il fumo negli occhi, gli mettevano i bastoni fra le ruote. L’incarico più prestigioso, giunto oltre la soglia dei cinquant’anni, fu quello di procuratore aggiunto della Repubblica: strada sbarrata per il posto di consigliere istruttore, trombato alle elezioni al Csm, fino all’approdo al ministero della Giustizia, grazie al lungimirante Claudio Martelli e tra gli insulti del solito fuoco amico.

Antonio Ingroia, che, avendo affrontato due soli processi degni di nota – Contrada e Dell’Utri, entrambi vinti – ha una percentuale del 100 per cento di successi, ha poi messo su il processo sulla trattativa e immediatamente dopo ha lasciato, per tentare la scalata alle stanze che contano, fondando un movimento politico e candidandosi premier. La sua parabola, conclusa come boiardo in una società regionale, in cui è riuscito persino a farsi indagare dai suoi stessi ex colleghi, dimostra che la magistratura non possiede gli anticorpi neppure per frenare una più che resistibile ascesa come questa. Così il «lavoro sporco», il processo, il cui successo – nella vicenda trattativa – per l’accusa è tutt’altro che certo, lo fanno gli altri suoi ex colleghi, a cominciare da Nino Di Matteo, magistrato costretto a vivere scortato come un capo di Stato, molto più protetto di Falcone, per via di minacce e piani di morte via via raccontati dai pentiti, ma ormai isolato all’interno del suo stesso gruppo inquirente, molto più disincantato sulla trattativa, e protagonista di frequenti attriti con il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi.

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Questo è il Paese delle verità celate, occultate, negate: da piazza Fontana al sequestro Moro fino a Capaci e via D’Amelio, alle stragi di Roma, Firenze e Milano. È un Paese che cerca, ma non trova, giustizia.

Dopo le stragi di mafia, ad esempio, la ricerca dei mandanti occulti non si è mai fermata: cinque procuratori della Repubblica di Caltanissetta, quattro di Palermo e altrettanti capi della Direzione nazionale antimafia, compreso l’attuale presidente del Senato, Piero Grasso, hanno sempre sostenuto di voler andare oltre le responsabilità degli esecutori materiali, puntando a individuare i mandanti esterni. Venticinque anni dopo non sono stati ancora trovati, eppure non si può certo dire che non siano stati cercati, anche indirettamente: l’emblema è l’inchiesta dell’allora pm Roberto Scarpinato chiamata «Sistemi criminali», smisurato contenitore che, dopo costosissime e poco proficue indagini tra mafia, Gladio, politica, massoneria e Servizi (ovviamente deviati), ha portato ad una solenne e monumentale archiviazione. E anche a Caltanissetta, Vincenzo Scarantino ha potuto raccontare quel che ha voluto, nel processo per la strage di via D’Amelio. Disonesto, forse, o forse convinto a suon di botte: mille volte ha ritrattato e non è stato creduto; andava bene solo quando accusava. Per sconfessarlo si è dovuto attendere nel 2008 un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza: Scarantino è stato così fatto passare come vittima di non meglio precisati poteri forti, che lo avrebbero costretto a mentire. Ma chi lo costrinse? Archiviate le indagini sugli agenti «torturatori», è rimasto un unico presunto «puparo», il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, che offre un vantaggio enorme ai propri detrattori: è morto. Nessun sospetto invece sui circa 40 magistrati che, nei tre gradi di giudizio, non si accorsero che Scarantino era un balzano mentitore, e nemmeno dei più furbi. Fra di loro c’era anche il giovanissimo Di Matteo e la più navigata Anna Palma, di recente divenuta avvocato generale, cioè vice del Procuratore generale di Palermo, Scarpinato.

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Falcone, tacciato di essere a turno comunista, democristiano, socialista, fu accusato di mille cose (il Corvo delle lettere anonime cercò di «mascariarlo» per gli omicidi attribuiti al pentito Totuccio Contorno, Orlando disse che teneva le prove nei cassetti sulle collusioni tra mafia e politici) ma, al di là dei veleni, contro di lui non ci fu mai nulla di nulla. Non altrettanto limpida può dirsi l’antimafia delle deviazioni e delle scorciatoie di oggi, quella che ha gestito i beni confiscati: amava definirsi vicina a «Paolo», Silvana Saguto, la ex presidente della sezione misure di prevenzione, accusata di avere approfittato del ruolo e della posizione di simbolo dell’antimafia per depredare i patrimoni mafiosi. Casi estremi ma per niente marginali, dato che sono coinvolti altri quattro giudici: le tentazioni di sfruttare la facciata antimafia sono forti e si è passati dalla Palermo espugnata come la Sagunto del cardinale Pappalardo alla Palermo della Saguto.

Città bizantina e spagnola, il capoluogo siciliano, in cui le famiglie delle vittime della strage di Capaci sono… capaci di litigare fra di loro proprio alla vigilia del venticinquennale.

Maria Falcone, titolare unica del copyright della memoria e dell’immagine di Giovanni, ha accettato che i resti del fratello venissero accolti dal Pantheon dei palermitani, il tempio di San Domenico; Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, moglie di Falcone, morta con lui, non ha accettato la separazione delle salme e ha ritirato il cognome dalla Fondazione Falcone. È proprio vero che pure da morto, per Falcone il peggior nemico è il fuoco amico, ovviamente amico.


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