Non parlano. Grugniscono quasi. Pensano che grugnire, mimetizzare le parole tra versi sconnessi, aiuti. Impedisca cioè a orecchie vigili di captare il contenuto dei loro discorsi. Ma si sbagliavano i due fratelli Di Giacomo. Nulla di quei dialoghi di morte è passato inosservato. Nulla è andato perduto del colloquio in cui si discorreva tranquillamente di uomini da ammazzare e poi sotterrare sotto la calce (“la quacina”). Senza alcuna preoccupazione che non fosse di carattere tecnico. Come seppellirli. Come farli sparire, dopo averli ammazzati. Come togliere le scarpe. Come uccidere, minimizzando gli inconvenienti che l’atto comporta per la presenza di un codice penale.
Se si guarda il video che Livesicilia ha proposto alla luce della storia criminale, la valutazione è semplice: si tratta di due mafiosi che fanno il loro mestiere e che stanno ragionando sul modo migliore per portare a termine il compito prefissato. Ma se si osserva la scena con gli occhi di un palermitano medio, mediamente onesto e quotidiano, il senso di raccapriccio è immediato e solleva almeno due domande.
La prima: come è possibile che la mafia vera somigli in tale eccessiva misura alla sua visione fantasmagorica? Quelle facce, quei gesti, quei fonemi sono rintracciabili in tutte le sceneggiature che hanno raccontato il suo cuore nero, soprattutto nelle parodie che hanno cercato di distruggerlo, mostrando quanto siano ridicoli, marci e indifesi gli uomini del disonore.
E’ dunque possibile che l’oggetto coincida sempre con la sua caricatura? Sì, la risposta è ovvia. La mafia è cambiata con la società, ma il suo epicentro resta incardinato in un codice bestiale con passaggi ed espressioni immutabili. Un giorno, forse, Cosa nostra andrà sulla luna. Eppure, nel cratere più sperduto ci saranno due boss che parlano e grugniscono. L’essenza tribale è la dannazione che rende i mafiosi al tempo stesso forti e sconfitti. Forti, nel determinare con inappellabili sentenze di condanna chi debba vivere e chi non. Sconfitti nella perpetua alienazione da tutto ciò che è umano, bello e amabile.
La seconda domanda si associa a uno sgomento ancora maggiore. Essi vivono tra di noi. Appaiono irrecuperabili. C’è un’intera città – questa Palermo smarrita – che tira avanti in mezzo a parole, più o meno mafiose, che non raggiungono la dignità del buon pensare che è anche buon vivere. Parole che sono simili ai grugniti, perché provengono da bocche non perfettamente umane. Da persone che sono nate umane, ma che non accedono al livello minimo dell’umanità, per mancanza di occasioni o per colpevole scelta. Dunque, come si può redimere una terra così, divisa tra luci e ombre, spaccata a metà, tra creature che hanno diritto alla luce e creature che vivono nel buio, senza contare che anche la luce nasconde talvolta affari, violenza e mistificazione? E’ tutto inutile? E’ superfluo immaginare un futuro migliore, se c’è una tara inemendabile, una zavorra di cui nessuno potrà mai liberarsi? La risposta è no, a patto che…
Si può cambiare qualcosa, purché resusciti un’antimafia che sappia riscoprire la sua vocazione sincera, che sia attenta e misericordiosa. Che sia pedagogia complessiva dei diritti e guida per chi diritti non ha. Che sia “pro”, non solo “anti”. Che sia inflessibile e dolce. Che guardi al peccato, distinguendo i volti dei peccatori. Abbiamo bisogno di un bagno di purezza e consapevolezza. Finché l’antimafia sarà ciò che è sotto gli occhi di ognuno: una lotta per il potere tra fazioni in guerra, non più un patrimonio comune di speranza, le figure che grugniscono nell’ombra avranno la meglio.