I racconti dalla guerra: notizie ed immagini che "lasciano il segno"

I racconti dalla guerra: notizie ed immagini che “lasciano il segno”

I possibili effetti psicologici
IL PARERE DELLA PSICOLOGA
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5 min di lettura

Negli ultimi anni il panorama internazionale è stato segnato da una crescente instabilità, con conflitti armati che si protraggono nel tempo, emergenze umanitarie di ampia portata e tensioni diplomatiche che coinvolgono diverse aree del mondo.

La guerra in Ucraina, entrata ormai nel suo quarto anno, continua a segnare profondamente l’Europa orientale.

Parallelamente, il conflitto in Medio Oriente ha riportato alla ribalta immagini di distruzione e sofferenza estrema nella Striscia di Gaza, con conseguenze drammatiche per la popolazione civile.

Dagli schermi alle nostre menti

In un mondo iperconnesso come quello in cui viviamo, le notizie e le immagini di guerra ci raggiungono in “tempo reale” attraverso tv, smartphone e social network, rendendo sempre più sottile il confine tra ciò che accade lontano e la nostra vita quotidiana.

Le guerre non restano piú “altrove”, ma arrivano alla nostra realtà di tutti i giorni attraverso mezzi e modalità comunicative che, annullando ogni distanza geografica, trasformano eventi lontani in “esperienze emotive immediate”.

Pur vivendo in contesti sicuri, ci si ritrova cosí quotidianamente esposti a contenuti che rappresentano dolore, paura e morte.

Bambini feriti, città distrutte, famiglie in fuga… ognuna di queste immagini entra nelle nostre case, nei pensieri, nei sogni e nelle conversazioni quotidiane, propagandosi ben oltre i luoghi geografici dei conflitti, attraverso un’eco che suscita in noi spettatori emozioni intense, spesso difficili da elaborare.

I possibili effetti psicologici

Le guerre contemporanee non si combattono cosí solo sui campi di battaglia, ma anche nello spazio mediatico e nella mente di chi assiste. L’esposizione costante ad immagini di violenza e dolore genera un “impatto psicologico collettivo” capace di influenzare pensieri, comportamenti e relazioni di individui e comunità.

Empatia: la connessione con il dolore altrui

Di fronte alle immagini di guerra, ci si ritrova ad attivare spontaneamente sentimenti di empatia, frutto della capacità di percepire e condividere le emozioni altrui. 

Attraverso l’osservazione dei volti di chi soffre, l’ascolto dei racconti dei sopravvissuti o la visione delle scene di distruzione, si innesca una risposta emotiva che mette in contatto con il sentire dell’altro, anche se si è geograficamente lontani.

Si sperimentano cosí sentimenti di tristezza, compassione, senso di solidarietà.. tutte reazioni che testimoniano la naturale inclinazione a comprendere l’altro mettendosi nei suoi panni, percependo risonanze interiori anche quando non si vive direttamente una determinata esperienza.

Tuttavia, quando l’esposizione è continua e priva di filtri, questa stessa empatia può trasformarsi in “sovraccarico emotivo”: l’intensità del coinvolgimento può generare forte senso di impotenza in quanto non è possibile intervenire di fronte alla sofferenza osservata, o bisogno di distacco come forma di autoprotezione, perché le emozioni provate diventano troppo intense per essere sostenute a lungo.

Uno stato di allerta che genera ansia

L’esposizione ripetuta, senza la possibilità di una reale elaborazione emotiva, può portare a ipervigilanza, irritabilità e stanchezza emotiva, spesso accompagnate da un senso costante di ansia e preoccupazione

Le notizie e le immagini di guerra, infatti, mantengono la mente in uno “stato di allerta prolungato”, anche se si è lontani dai luoghi del conflitto.

Ci si sente costantemente minacciati e ci si ritrova a vivere in un clima sociale di allarme ed incertezza.

Questo crea una tensione psicofisica di fondo ed una sensazione di vulnerabilità che può influenzare il sonno, la concentrazione e la qualità della vita quotidiana.

-Si soffre non perché si vive la guerra in prima persona, ma perché la si vede e la si sente entrare nel proprio “spazio mentale”-

Assuefazione al dolore altrui

Nel tempo, questa sovraesposizione alla sofferenza può portare purtroppo ad una forma di desensibilizzazione emotiva, un “meccanismo di difesa” attraverso cui la mente cerca di proteggersi dall’eccesso di dolore e di stimoli. Quando le immagini di violenza, distruzione o morte diventano parte della quotidianità, l’emozione iniziale di shock o tristezza tende ad attenuarsi: è come se il sistema emotivo si “anestetizzasse” per non essere travolto.

Questa reazione ha una “funzione adattiva” in quanto consente di tollerare l’impatto ripetuto di notizie traumatiche e di continuare a funzionare nella vita di tutti i giorni. Tuttavia però, quando il distacco diventa eccessivo, rischia di trasformarsi in indifferenza o “assuefazione al dolore altrui”. Ci si abitua a vedere la sofferenza come qualcosa di “normale”, perdendo gradualmente la capacità di sentirsi coinvolti e finendo per provare apatia, cinismo, accompagnati da una progressiva riduzione della solidarietà. 

Le tragedie scorrono sugli schermi come un flusso continuo di immagini a cui si reagisce sempre meno, fino a non distinguere più tra realtà e rappresentazione. È un fenomeno sottile ma profondo: più la mente si difende dal dolore, più rischia di perdere il contatto con la propria dimensione umana ed empatica.

Come prevenire o contrastare gli effetti

In fondo tutte queste reazioni indicano la profonda sensibilità umana che lega al dolore collettivo, ma se non vengono riconosciute e gestite in modo adeguato, possono trasformarsi in fonti di disagio e malessere.

Quando l’esposizione diventa costante ed eccessiva, la mente può rischiare infatti di restare intrappolata in un ciclo di allarme e tensione oppure, al contrario, di difendersi con una sorta di anestesia emotiva.

L’ansia può diventare cronica, la preoccupazione può evolvere in senso di impotenza, ed il distacco emotivo può sfociare in apatia o indifferenza.

Affrontare questi effetti richiede innanzitutto consapevolezza e misura. 

Limitare l’assorbimento passivo di informazioni, scegliere fonti affidabili e concedersi pause dai media sono gesti semplici ma fondamentali per preservare il proprio equilibrio interiore. 

Allo stesso modo, è utile trasformare l’emozione in riflessione o in azione solidale: condividere pensieri, confrontarsi con gli altri, sostenere iniziative di aiuto reale o simbolico restituisce un senso di efficacia e di partecipazione, contrastando la passività e l’impotenza.

Accanto a ciò diventa importante accogliere le proprie emozioni invece di reprimerle: paura, tristezza o rabbia sono risposte legittime a una realtà che tocca da vicino, anche se vissuta attraverso uno schermo. Dare loro spazio, nominarle, riconoscerle, permette di non esserne sopraffatti.

Infine, la chiave per non cadere nella desensibilizzazione è mantenere viva l’empatia, senza lasciarsi travolgere dal dolore, ma restando capaci di sentirlo e di tradurlo in consapevolezza, in un “delicato equilibrio tra prossimità e distanza emotiva”.

…Solo così si potrà continuare ad assistere al dolore del mondo senza soccombere, mantenendo al contempo viva la capacità di sperare e di agire con compassione.

[La dott.ssa Pamela Cantarella è una Psicologa Clinica iscritta all’Ordine Regione Sicilia (n.11259-A), libera professionista e specializzanda in Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale]


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