PALERMO – Resta un dubbio residuale persino dopo l’intervento della scienza. Ma è la stessa scienza a fornire la quasi certezza che il corpo distrutto dalle fiamme sia quello di Concetta Conigliaro, la ragazza scomparsa un anno fa a San Giuseppe Jato.
Gli esperti che hanno analizzato i resti umani rinvenuto in un grosso bidone sono riusciti ad isolare solo una traccia parziale di Dna e lo hanno confrontato con quello della mamma della vittima. E sono giunti alla conclusione che il profilo genetico non può che essere “di una figlia della donna”. Il resto è una conseguenza logica: Concetta è l’unica figlia di cui non si hanno più tracce.
Per l’omicidio della ragazza è finito in cella il marito, Salvatore Maniscalco. Poi, è scattata la misura cautelare per Antonino Caltagirone e il padre Vincenzo che avrebbero partecipato alla distruzione del cadavere. Il marito ha fornito più di una versione dei fatti. Si è autoaccusato, salvo poi fare marcia indietro nel corso di interrogatori pieni di contraddizioni. Di recente ha detto che Concetta è morta cadendo accidentalmente al termine dell’ultimo dei litigi che scandivano un rapporto di coppia ormai naufragato. Quindi si sarebbe disfatto del corpo.
L’ha bruciata gli aveva chiesto il giudice? “Sì”. E la benzina? “L’ho comprata prima, io lavoro in campagna e mi serviva per lavorare… davanti a Dio nessuno mi ha aiutato”. Ha utilizzato un bidone? “Sì”. E le ha dato fuoco? ”Sì, me sono andato, perché avevo la coscienza sporca”. Com’era vestita? “Jeans, giubbotto rosso”. E le ha tolto il giubbotto prima di bruciarla? ”No”.
Fu lo stesso Maniscalco a condurre i carabinieri, coordinati dai pubblici ministeri Gianluca De Leo e Ilaria De Somma, sul luogo del macabro ritrovamento, in contrada Giambascio, lungo la strada che da San Cipirello conduce a Partinico. Lì si trova il magazzino di proprietà dei Caltagirone. Le indagini sul loro conto sono partite proprio dal fusto. In corrispondenza alla scomparsa della ragazza, i Caltagirone sono stati visti mentre aiutavano Maniscalco a sgomberare la casa di via Crispi, a San Giuseppe Jato. In particolare, avevano lanciato dal balcone di casa, privo di ringhiera, un fusto in ferro utilizzato per impastare la calce per poi caricarlo sul camion, individuato nei pressi del magazzino.
Tra il 9 e 10 aprile, nelle ore della scomparsa della ragazza, c’era stata una raffica di contatti fra i Caltagirone e Maniscalco. Contatti che il giudice per le indagini preliminari Lorenzo Matassa definì “stranamente numerosi rispetto alle abitudini degli interlocutori e possono ragionevolmente trovare una spiegazione nella richiesta di aiuto, e nella concreta organizzazione dello stesso, da parte del Maniscalco e rivolta ai Conigliaro per l’attività di distruzione e occultamento del cadavere”.
Ma sono state soprattutto le intercettazioni ad inguaiare i Conigliaro. Il 26 giugno 2014 i due parlavano di un trasporto eseguito per conto di Maniscalco. Erano appena stati convocati dai carabinieri. Vincenzo: “Ma chi glielo disse che gli facemmo un viaggio noi? Cantò lui che gli facemmo il viaggio noi?”. Antonio: “Ca certo, io non gliel’ho potuto dire”. Vincenzo: “Cornuto che è inutile, minchia… può morire là dentro”. Antonino: “Minchia sono scannaliato nelle cose. Da ora in avanti, prima che carichiamo una cosa… ma che c’è dentro? A passare i guai non ci vuole niente”.
Secondo i pm, stavano parlando del corpo della ragazza, anche se lo avrebbero scoperto in un secondo momento. Poi, discutevano del rischio che i carabinieri trovassero le loro tracce sul fusto. “… per questo ti dico alle volte, non toccare niente, non toccare niente, tu hai la mania che tocchi sempre tutte cose. Ha di bisogno… perché non muore.. per me buttare sangue dal cuore”.
Il 9 luglio padre e figlio concordavano la versione da rendere ai carabinieri che li avevano convocati per interrogarli. “Non ti impappinare, stai attento a quello che combini perché siamo nella merda”. “Tu gli devi dire noi altri a lui l’abbiamo preso qualche giornata e basta non sappiamo niente”. “Minchia Dio ci scanza, i guai passiamo tutta la vita in galera ci buttano”. “Prima devono essere sicuri, lo deve dichiarare lui con la sua bocca, perché fino a là ci vado e gli tolgo gli occhi là dentro”. E Antonino concludeva: “La mia vita è finita”.