Ci mancava l’antimafia. E il caso agrigentino. Mai, come oggi, il meteo dei rapporti tra il governatore Crocetta e il premier Renzi promette bufera. Mai, come oggi, lo strappo è vicino. La rottura incombente. E l’ombra di una sorta di “default” mascherato, di un commissariamento persino formale, oltre a quello sostanziale già in atto, sempre più ampia.
L’antimafia e la storia delle amministrative di Agrigento sono solo le ultime e più recenti puntate. Che ovviamente ruotano attorno al tema principale, quello del bilancio regionale. Ancora tutto da fare. E le chance di riuscire a far quadrare i conti della Sicilia, come ormai è chiaro a tutti, passano dal “dialogo” tra Roma e Palermo. Un dialogo utile a convincere Palazzo Chigi a scucire una somma di almeno 700 milioni di euro. Ma i rapporti oggi, sono ai minimi termini.
E certamente il presidente della Regione non ha fatto molto perché il governo centrale si “ammorbidisse”. Le parole di Crocetta, qualche giorno fa, in Commissione antimafia, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, hanno irritato il premier. E anche qualcuno tra i più stretti collaboratori di Renzi, chiamato direttamente in causa da Crocetta, pur senza fare il nome. “Quando ero sindaco di Gela – ha denunciato Crocetta – mi dicevano che ero sbirro. Da presidente della Regione, invece, un sottosegretario del governo mi attacca dicendo che faccio troppo denunce e che devo farne di meno. È possibile – ha proseguito Crocetta – che la nostra azione di lotta alla mafia sia solo teorica? Non ho visto nessuno del governo nazionale intervenire nei confronti di quel sottosegretario. Questo è un minuetto – ha aggiunto Crocetta – in cui si può fare finta di poter coesistere con la mafia e far finta che la candidatura di Crisafulli non sia un problema. Qualche solidarietà nazionale qualche volta la vorrei”.
Concetto rincarato a margine della commissione, di fronte alle telecamere del Fatto quotidiano: “Come si può pensare di fare una lotta così blanda alla mafia e alla criminalità, come se la politica non c’entrasse? La lotta alla mafia non può essere fatta dai magistrati e dalle forze dell’ordine in solitario. Ma deve essere aiutata anche dalla politica. Il mio partito non dà segnali chiari? Credo che la politica in generale non dia segnali chiari sul terreno della lotta alla corruzione e alla mafia. Fino a quando non li arrestano non si fa nulla”.
Parole che non sarebbero affatto piaciute a Palazzo Chigi. Anche perché il riferimento a Davide Faraone è fin troppo evidente. Proprio in occasione della Leopolda sicula, infatti, il sottosegretario all’Istruzione disse dal palco: “Basta con un certo tipo di antimafia – ha detto – che si muove solo per interesse, perché proprio questo modo di agire danneggia chi fa antimafia veramente e sul campo, come le tante cooperative che gestiscono i beni confiscati”. Faraone in quell’occasione ha anche stigmatizzato “il rito di chi pensa di fare antimafia solo presentandosi nelle Procure per fare denunce” e ha definito questo modo di agire “omertoso” rispetto a chi ha la responsabilità politica e istituzionale di risolvere i problemi della gente. Parole molto dure. Evidentemente non ancora digerite dal governatore. E rilanciate in occasione della Commissione.
Ma in quell’occasione, Crocetta ha affrontato un altro nodo che in quei giorni era caldissimo: le amministrative agrigentine. E, dopo aver benedetto la coalizione “ibrida” con pezzi di Forza Italia a correre per le primarie di centrosinistra, ecco anche la difesa accorata del candidato vincitore: “Alessi? Non è vero – ha detto Crocetta ai microfoni del Fatto – che è di Forza Italia. La Lega ad Agrigento vuole un proprio candidato e Forza Italia si è spaccata. In quella coalizione c’è una lista civica. Alessi non è iscritto a nessun partito ed è una brava persona. Per me è prioritario in Sicilia affrontare la questione morale. E il fatto che si candidi una persona perbene è per me una conquista storica”. Peccato che poche ore dopo il governatore venisse sconfessato non da un esponente qualsiasi del Pd, ma addirittura dal vice di Matteo Renzi, Debora Serracchiani che aveva “censurato” la coalizione agrigentina chiedendo, sostanzialmente, il “passo indietro” del Pd. Passo indietro che è arrivato, puntuale, con la decisione della segreteria regionale. Una scelta che, ha precisato il segretario Raciti, non è stata “suggerita” da Roma. Il Pd nazionale e quello regionale, insomma, a quel punto erano d’accordo.
Ed è, al di là dei ritardi, delle omissioni e dei limiti manifestati dai democratici in questa vicenda, una spia ulteriore: Crocetta, a differenza di qualche tempo fa, oggi sembra lontano sia dal Pd nazionale che da quello regionale. Non è un caso che lo stesso governatore avesse ribadito, pochi giorni fa, di essere uno “scomodo” per il suo partito. Per poi ricevere una serie di contrattacchi dei suoi compagni di partito impostati sulla teoria che “nessuno, nel Pd, ha nulla da imparare da Crocetta sul tema della lotta alla mafia”. Anzi, Raciti è andato giù anche più duro: “Nessuno – ha detto – può pensare di possedere l’esclusiva del ‘marchio dell’antimafia’. Anzi, troppo spesso la lotta alla mafia è stata utilizzata come strumento di potere, di scomunica o di lotta interna”.
E si ritorna lì, alla commissione antimafia che ha urtato Renzi. Che adesso sembra nutrire, forte, quella tentazione. Togliere la Sicilia dalle mani di Crocetta. E, come detto, il tema dell’antimafia e il caso agrigentino sono solo gli ultimi due motivi di insoddisfazione. È stata guardata con grande interesse da Roma, ad esempio, la rivolta dei sindaci siciliani nei confronti del governatore. Del resto il “tema” delle autonomie locali è molto sentito dal governo centrale. La scalata di Renzi è partita proprio dalla poltrona di sindaco di Firenze, mentre uno dei più influenti consiglieri del premier, il sottosegretario Graziano Delrio è stato per anni presidente nazionale dell’Anci, l’associazione nazionale dei comuni italiani. E il tema dei Comuni si porta appresso tante altre questioni irrisolte finora dal governatore gelese: dalla gestione dell’acqua a quella dei rifiuti. Mentre da sfondo ecco la mai conclusa riforma delle Province, dove Crocetta avrebbe manifestato anche un po’ di testardaggine nel non recepire, come anche gran parte della sua maggioranza gli suggeriva, proprio la legge Delrio sulla riforma dell’ente intermedio.
L’idea a Palazzo Chigi è quella di una Sicilia che viaggia a una velocità di gran lunga inferiore a quella di un governo nazione che, nel bene o nel male, sta provando a incidere. E ancora, il “caso Ismett” è tutto fuorché risolto, nonostante le dichiarazioni ufficiali. Non a caso, al momento, il governo regionale ha deciso di non decidere. Limitandosi a prorogare la convenzione di tre mesi. Mossa utile per far pesare la vicenda dell’Istituto al quale Palazzo Chigi tiene molto, anche sui tavoli della contrattazione finanziaria.
Come detto, il “tema dei temi”, attorno al quale ruotano le questioni satellite, rimane quello: il bilancio regionale. Roma sta valutando se e in che modo concedere alla Sicilia le risorse per chiudere i conti. E il fatto che nulla sia scontato è confermato dalle stesse parole di Crocetta: “Credo che Renzi non abbandonerà la Sicilia, ma anche se Roma non ci aiutasse dovremo essere pronti a chiudere il bilancio”. In realtà continua a farsi strada la tentazione del premier: intervenire in maniera “esemplare” nei confronti della Sicilia. Sembra che in questi giorni l’argomento sia caldissimo. E la ricerca di una soluzione che possa “salvare i siciliani”, ma anche chiudere l’esperienza del governo regionale. Per portare così la “testa” dell’Isola di fronte all’Europa. Come a voler dire: “Non facciamo sconti. Nemmeno ai governatori del nostro partito”. Nel frattempo, l’assessore all’Economia Alessandro Baccei decide di non apporre la sua firma alla Finanziaria appena depositata all’Ars. Forse Roma non abbandonerà la Sicilia, come dice il governatore. Ma Renzi sta pensando di abbandonare Crocetta.