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Riesumashow

Lo possiamo fare un discorsetto sottovoce rivolto al protagonismo che a volte avvolge e contorce il lavoro dei magistrati, compresi tanti, coraggiosi e valorosi, impegnati nella trincea antimafia del palazzo di giustizia di Palermo?

Da "I Love Sicilia"
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6 min di lettura

Lo possiamo fare un discorsetto sottovoce rivolto al protagonismo che a volte avvolge e contorce il lavoro dei magistrati, compresi tanti, coraggiosi e valorosi, impegnati nella trincea antimafia del palazzo di giustizia di Palermo?
Lo possiamo fare senza passare per fiancheggiatori di loschi figuri o per difensori di quella “palude” recentemente riproposta perfino da Roberto Saviano in Tv con il richiamo alla protesta di un lettore del Giornale di Sicilia “disturbato” nel 1985 da sirene, autoblindate e zone rimozione?
Andiamo, Saviano. La città non é più quella, per fortuna. Non solo per fortuna, soprattutto per impegno di tanti, a partire da quegli stessi magistrati.
Lo so che è terreno insidioso, che ancora oggi qualche coro stonato è pronto a scatenarsi pro o contro sulla tiritera dei “professionisti dell’antimafia”. No, non c’entra niente e spero che si sia finalmente liberi di azzardare qualche critica su persone perbene, pur correndo il rischio acido di provocare una grassa soddisfazione in persone permale. Ma da queste ultime prende sempre più distanza la città un tempo complice, immobile, silente. Perché, dopo un quarto di secolo, qualcosa è pur mutato nella coscienza civile di un pezzo di Palermo, di un pezzo grande dell’isola.
Azzardo, quindi. Anche per confidare quanto sia stato  veramente infelice la mattina di giovedì 28 ottobre davanti al cimitero di Montelepre dove la Giustizia si preparava a rileggere la Storia scoperchiando la bara di Salvatore Giuliano per capire se il corpo custodito da 60 anni fosse quello del bandito, ovvero si trattasse di un poveraccio ucciso per consentire alla primula di Portella della Ginestra di fuggire, forse in America.
Ipotesi tutta da provare, accreditata da uno storico tenace come Giuseppe Casarubea che è riuscito ad intrigare magistrati del calibro di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, deciso con i sostituti del suo ufficio a procedere. Cioè a dare il via libera alla riesumazione della salma per confrontare con le nuove moderne tecniche il Dna dei resti custoditi nella bara con quello dei familiari di Giuliano, a cominciare dal nipote che per difenderne la memoria ha scritto libri e ha edificato a Montelepre una sorta di castello trasformato in albergo e ristorante.
Appresa pur con molto scetticismo la notizia della scelta della Procura, ho comunque deciso di seguire la vicenda e raccontarla nei miei articoli. Magari chiedendo di essere presente nel giorno dell’evento. Ricordando un precedente “eccellente”, quando nella Cattedrale di Palermo si scoperchiò il sarcofago di Federico II per curiosare fra ossa e polvere dello Stupor Mundi.
Ma lo stupore lo provai io quando un giorno mi comunicarono dalla segreteria del giornale per cui scrivo che, per assistere alla riesumazione di Giuliano, occorreva presentare una richiesta di accredito indirizzata alla Procura di Palermo da parte di testate giornalistiche, network televisivi, inviati, corrispondenti, fotografi e così via.
Per assistere all’opera di un medico legale, un necroforo, un paio di agenti e un magistrato? Fu la domanda che restò dentro me stesso. Dando comunque l’ok alla segretaria di comunicare i dati.
Andiamo alla mattina infelice. Alle 9, in anticipo di mezz’ora sull’orario fissato, mi ritrovai davanti al cimitero scoprendo una folla infreddolita e incollerita di colleghi, cameraman, tecnici e fotoreporter giunti ancor prima. Tutti ammassati sul ciglio della strada, sotto un cancello sbarrato, presidiato da una trentina di carabinieri, altrettanti poliziotti, forse di più, dieci vigili urbani, fra uno stuolo di berline di servizio, autocivetta e blindate. Una folla e un ingorgo automobilistico che si gonfiavano di minuto in minuto perché sembrava che nessuno volesse perdere l’appuntamento con la Storia. Tutti in attesa dell’unico tecnico indispensabile, il medico legale, un docente giunto dal Policlinico con strumenti e ampolle per i prelievi, subito transitato all’interno con un paio di manovali armati di piccozze.
Era chiaro che quella mattina nessuno avrebbe potuto avere alcuna risposta ai dubbi sull’identità di Giuliano. Unica sorpresa poteva essere quella di trovare la bara vuota. E anche per questo, ovviamente, si imponeva la presenza alle operazioni di un sostituto procuratore. Per controllare, verificare, verbalizzare. Oddio, anche due sostituti. E un paio di magistrati la folla dei mass media cominciò ad attendere, sperando che consentissero infine di aprire quel cancello, di permettere una inquadratura ravvicinata della bara, lo spostamento dal loculo alla camera mortuaria, magari una zoomata per riprendere il medico legale all’opera davanti a una tibia, a un ciuffo di capelli, giusto per non restare a mani vuote, come implorava invano un regista arrivato con il pullmino di Sky, le parabole già posizionate.
No, non si entra e non si entrerà, spiegò un ufficiale dei carabinieri allargando le braccia, evocando un ordine della Procura. La stessa che aveva ricevuto le richieste di accredito. Ma l’autorizzazione richiesta e concessa era quindi finalizzata a vedere, a riprendere, a registrare e quindi a mostrare, riferire, scrivere che cosa? A cosa servivano gli accrediti dovendo restare sul ciglio di una strada sferzata dal vento?
La risposta l’ho avuta dopo un’ora di attesa quando è arrivato il primo magistrato da Palermo, scortato da due auto blindate. Corteo seguito dieci minuti dopo da quello del secondo magistrato, anche lui con robusta scorta. Come la terza magistrata giunta con due blindate. Mentre s’infoltiva il cordone delle forze di polizia. Schierato come se ci fosse una manifestazione di precari inferociti davanti alla Regione. Un tappeto d’auto. Sessanta, forse settanta uomini in divisa e in borghese a fare muro. Un muro elastico per il quarto magistrato giunto con un altro corteo annunciato dalle sirene in quel budello deserto di Montelepre. Ogni volta blindate circondate, sorrisi, battute di circostanza, microfoni cortesemente scostati, scorte pronte a spintonare fotografi e cameraman. Un film. Il solito film. Ecco per quattro volte che cosa era rimasto nelle Nikon e nelle immagini Tv. Scenette da tigì. Come accadde per l’ultimo arrivato, appunto il dottor Ingroia, unico pronto a sostare davanti alle telecamere, a rilasciare quattro parole di circostanza perché ovviamente nulla di importante c’era da enunciare quella mattina, né prima né dopo l’opera del medico legale.
Ma perché il circo mass mediatico aveva piantato le tende lì, se non era nemmeno possibile assistere e riprendere quel lavoro anche da lontano? Potevano mai accontentarsi nelle redazioni delle riprese “autorizzate” dalle 8.30 alle 9 del mattino, all’interno del cimitero deserto, quando non era accaduto nulla? A che cosa servivano i fax e le mail scambiate fra Procura, giornali e Tv, con tanto di generalità degli accreditati?
La risposta non ce l’ho. Conosco però l’effetto raggiunto: la corsa ad esserci, ad esserci in massa, anche con due cronisti per testata, con le telecamere, con i pulmini armati di parabole satellitari. Per riprendere non Giuliano, ma la sequela di quei cinque magistrati che sarebbero stati troppi pure se ci fosse stato un delitto. Come d’altronde si vociferava in quelle stesse ore nel corridoio della Procura, fra quanti dovevano correre in udienza o preparare processi, stupiti dai troppi che lasciavano in massa gli uffici per la trasferta a Montelepre.
E spero che non si urti il mio vicino di rubrica, unico che cito, convinto come sono di potere sussurrare una sana critica, certo che un richiamo alla sobrietà non possa prestarsi ad equivoci. Soprattutto in tempi segnati da costanti richiami all’insufficienza di fondi, alle collette per la benzina o per le fotocopie. Sicuro che si possa fare questo invito anche a persone che danno tutto di se stessi per una causa vitale come quella di perseguire chi infrange le regole della legalità. Arciconvinto, però, che sia l’ora, come è stato scritto pure per Saviano, che nessuno diventi prigioniero del suo personaggio.


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