Ricordo di Gerardo Sangiorgio, biancavillese sopravvissuto ai lager

Il ricordo di Gerardo Sangiorgio, etneo sopravvissuto ai lager

Il racconto del figlio Dino per colui che era stato fatto diventare un numero: 102883/IIA. Subendo sofferenze indicibili.
IL GIORNO DELLA MEMORIA
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8 min di lettura

Mi sono chiesto più volte cosa avrebbe pensato mio padre se avesse saputo che un giorno la sua vita, o meglio la scelta che pregiudicò per sempre “gli anni più belli”, avesse riscosso tanta curiosità e interesse nelle aule di scuola, proprio tra i ragazzi, che alcuni decenni prima – e per generazioni intere -, aveva profondamente amato e a cui aveva voluto consegnare una lezione profonda e sofferta di vita.

Ricordo il suo rifuggire le prime file, il vivere discreto, alimentato da quella Fede che era stata sempre speranza. Soprattutto nei momenti più bui. Così, accoratamente, lo ricordò il prevosto Carmelo Maglia ai funerali: “Lo ricordo sempre in fondo, negli ultimi banchi, solo, in silenzio, a parlare con il suo Dio”.

Ma quanto difficile raccontare i lager, in una società che non comprende. Ripeteva “non si può capire”, “si perdeva l’umanità”.
Era stato un dramma per lui, pacifista convinto, che amava la letteratura e il cinema – soprattutto quello “all’aperto” che vedeva dal tetto di casa, ricordando ancora negli ultimi anni, con lucidità, il passaggio dal muto al sonoro in una pellicola con la sola frase “… perdonalo anche tu!”- essere chiamato alle armi improvvisamente.

L’inizio del dramma

Tutto ebbe inizio il 10 giugno 1940, quando si apprestava alla licenza liceale. I ritmi duri di un servizio militare non scelto, la partenza per la campagna di Grecia.
Eppure da questo dramma, a me bambino, non mancò mai di regalarmi qualche sorriso, quando raccontava del clima gelido dell’Italia del Nord e di una camicia stesa la sera e trovata ghiacciata l’indomani, “come una pala di baccalà”, o di una esercitazione in cui si trovò scaraventato alla deriva sopra un motociclettone lanciato a tutta velocità.

Poi il racconto si faceva cupo, lucido e sempre sofferto, quando dalla gioia per l’annuncio dell’Armistizio, dopo i giorni in cui aveva partecipato al Congresso eucaristico a Berceto, si passava alla sera dell’8 settembre 1943 a Parma. Il giorno in cui la bella lattaia gli aveva proposto la fuga, come a molti compagni di camerata, procurandogli gli abiti civili, di fronte a un nebuloso, nefasto, presagio, palesatosi già nel via vai convulso sulle scale della caserma. Ma lui ligio al dovere, responsabile, in linea col padre, maresciallo delle guardie reali, che non aveva mai osato chiedere per vie preferenziali un suo avvicinamento, rifiutò.

Seguirono le urla, il “Raus Raus”, col mitra tedesco alle spalle. E dopo non aver ceduto alla lusinga della libertà, in cambio del suo prestar fede a Salò, vennero i vagoni piombati, in condizioni indicibili: un solo sportellino per prendere aria e gettare gli escrementi dopo giorni di viaggio.

Il “mani in alto”, la perquisizione, le stellette e le mostrine strappatigli di dosso nel KZ di Neubrandenburg. E poi il rosario dell’ “Italiener Scheisse”, o “Badogliani”, “Traditori”, l’essere ricordati solo dalla “Patria” con una tazzina di riso una volta al mese, e solo nel primo periodo, quello  in cui era possibile far filtrare qualche cartolina a casa.

Non più Gerardo Sangiorgio, ma 102883/IIA

Il divenire numeri, non più Gerardo Sangiorgio, bensì il 102883/IIA. E per lui che conosceva il francese il trasferimento dopo un po’ in un altro lager a Bonn, tenuto soprattutto conto del gonfiore al viso per l’insufficiente alimentazione, travisato come abilità al lavoro (provvidenziale per la sua salvezza).

Qui teorie infinite di freddo, fame, umiliazioni. Gli sputi tedeschi addosso, lo spegnergli le cicche delle sigarette a carne viva. E lui ancora fiero della sua scelta, ancora di fronte all’ultimo tentativo nazista: “Se passate con noi sarete liberi” (chissà quanto reale!?).

E come vita di tutti i giorni la corrente elettrica che attraversava il filo spinato, lo sguinzagliare i cani se qualcuno tentava la fuga. “Come potevano – si chiedeva fino all’ultimo – i tedeschi che tanto amavano i cani, o che avevano tanta cura per gli uccelli, lasciare morire così gli uomini. Così crudeli e dal cuore di pietra di fronte a un principio universale elementare”.

L’allucinante condizione umana: c’era chi per eludere un solo turno di lavoro si mozzava un dito con una scure, e chi desiderava che qualcuno, in virtù delle precarie condizioni di salute, rimettesse per bere il vomito. Intanto gli Americani erano alle porte: un bombardamento a tappeto sulla sua fabbrica, che  segnò la tragica fine di alcuni prigionieri. E lui trascinato all’indietro dai piedi, perchè ritenuto già morto da un commilitone in cerca di qualche vestito.

In quei giorni l’ulteriore tragedia di vedere rubata la sua cassetta, con i diari scritti anche con l’effimera luce di un fiammifero di notte, qualche numero de “L’amico della gioventù” e soprattutto le sigarette da lui accumulate che gli facevano ottenere, grazie al baratto con i russi in primis, qualche fettina sottilissima di pane o qualche buccia di patata: vale a dire la vita.

In quei giorni aveva assistito alla morte nel lager di Dessivo Pietro Mangerini. E per sottrarsi a quell’alienazione ripensava al suo Liceo, ripercorreva con la mente i versi della “Divina Commedia” e il meglio della produzione dei Poeti, e stringeva una reliquia di S. Gerardo, cucita all’interno della casacca con qualche altro santino.

Gesti di carità e segnali di speranza

Eppure ricordava anche un gesto di carità, rimasta sempre anonima: una mano che lasciava scendere con una cordicella un contenitore della spazzatura: dentro qualche rimasuglio di cibo, spesso un pezzettino di pane. E lui a vegliare, fin quando sicuro di non dare all’occhio poteva avvicinarsi alla pattumiera. Mano che non volle mai farsi associare a un viso. Un uomo o una donna? Mano che non volle mai un ringraziamento: il bene per il bene, a rischio della vita. Semplicemente.

Eppure era la Provvidenza, che lo voleva ancora vivo. I tedeschi in fuga avevano lasciato un deposito di pane intatto, nei pressi del tunnel che stavano scavando. Era sembrato a tutti di toccare il cielo con un dito. Mio padre giunse ultimo. Non c’era più nulla per lui. Poco dopo la constatazione che i nazisti avevano pensato bene di avvelenare ogni cosa. La sua delusione si era trasformata presto nella sua salvezza.

Intanto un quotidiano, quel 10 agosto del ’45, riportava la notizia del bombardamento di Nagasaki. Raggiunse così casa della zia Lucia (la parente che scrisse a Pio XII per interessarlo alla vicenda), facendosi annunciare da una vicina come un soldato che aveva notizie di suo nipote; seguirono le cure (la rialimentazione progressiva – tanti morirono al rientro per non aver saputo dosare il cibo -).

L’insegnamento

E poi il rientro a casa a Biancavilla, dove il padre per lunghi mesi lo aveva atteso ogni giorno alla fermata della Littorina, mentre la madre aveva fatto voto a S. Rita. In casa, intanto, si era sovrapposta, per sempre, un’incisione della Madonna, portata dalla Germania, al quadro del Re. Giunse la laurea, sudatissima e frutto di innumerevoli sacrifici. Atto “eroico”, com’ebbe a dire al padre un suo compagno di Liceo. E da qui la sua testimonianza sempre viva.
Ma qual’era l’insegnamento che a casa volle trasmetterci?
Si lasciava andare espressioni come “Mhei, per me era un sogno, un miraggio”, di fronte a un po’ di cibo che rimaneva nel piatto. Oppure imboccava me e mia sorella fino all’ultima stellina o pezzettino di pastina lasciata del piatto.

E per lui c’era spesso il pane raffermo che si bolliva anche con sola acqua. Non potevamo capirlo noi, viziati dalla società dello spreco, che aveva incoscientemente voltato pagina, che non aveva mai conosciuto la fame, che ci concedeva ben altra sorte e ci lusingava con la pubblicità del consumo.
Ma lui, segnato nell’intimo, non riusciva a vedere un film in cui la voce di un soldato tedesco affiorasse con la rabbia e la crudezza che aveva conosciuto.

Spesso nelle festività arrivava a casa la telefonata di Luigi Ciacciarelli, deportato insieme a lui, che gli confidò “Tu mi hai salvato la vita”, a seguito di una rischiosa intercessione che mio padre fece con un ufficiale che voleva punirlo, in lingua francese.
Forse ancor una volta riemergeva l’animo ragazzo di ventitrè anni che aveva trascritto una serie di canti del lager, per infrangere l’atrocità della condizione. Parole piene di speranza e dolore. Erano canzoni alimentate dall’antifascismo e dalla protesta per l’ingiustizia di ogni conflitto.

Non posso dimenticare l’orgoglio quando si vide recapitata una busta con dentro il diploma di “Combattente per la Libertà d’Italia” a firma di del presidente Pertini e del ministro Spadolini, in quanto internato “non collaborazionista”.  Forse il suo sacrificio era servito a qualcosa.
Non so quanto e se abbia gioito alla fine dell’89, alla notizia della riunificazione tedesca, chissà quali incubi gli  ritornarono in mente.

I figli sono sempre i meno indicati a parlare dei propri genitori. Troppo delicata e intima la prospettiva. Ma in taluni casi il quadro familiare ha diritto a una sua estensione, quando il significato incide aspetti più profondi e tocca corde universali.

La memoria

Un’esistenza, dunque, quella di mio padre, che ha lasciato una traccia nella memoria, per l’affermazione silenziosa e decisa di una via giusta, difficile e solitaria: una scelta affrontata lucidamente, una professione di fede che non può prescindere dall’azione, dalla scelta, anche a rischio del bene più grande. Una lezione


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