Ricomporre il mosaico di pensieri, sensazioni, orientamenti che portarono Gerardo Sangiorgio (1921 – 1993), mio padre, a rifiutare di prestare il consenso alla Repubblica di Salò nel settembre del 1943 e mettere di fatto a repentaglio la sua vita con la deportazione e l’internamento nei lager nazisti K.Z., restituisce – attraverso gli scritti e i ricordi personali – la dimensione del vissuto individuale di un ragazzo appena ventenne nel momento della svolta cruciale.
Ma oltre quella “indicibile sofferenza” vissuta in prima persona, dietro quel filo spinato, c’è anche la sfera affettiva più prossima, quasi sempre nascosta. Si potrebbe dire c’è quel lager vissuto in “seconda linea”.
Il ritrovamento
Su richiesta di una studentessa desiderosa di integrare la sua tesi di laurea sulla produzione poetica di mio padre con qualche pagina inedita, tra le carte di famiglia mai vagliate, con sorpresa, ho rinvenuto un quaderno, di quelli utilizzati nelle scuole rurali, rinfoderato per cancellare i segni dell’istruzione imposta dal regime. Si trattava di un “Diario per Gerardo”, scritto dalla sorella Italia che aveva appena preso servizio quale insegnante elementare nella scuola di Maletto.
Sono pagine emotivamente forti, precedute da due lettere, ritornate al mittente, in cui a seguito della notizia ricevuta dalla Croce Rossa della cattura di Gerardo nella notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943, la sorella aveva inteso scrivergli per dirgli che da lì a poco il fratello maggiore Francesco si sarebbe laureato in giurisprudenza e il minore avrebbe conseguito la maturità classica, ma nessuna gioia avrebbe potuto mai accompagnare quegli eventi a lungo attesi, non avendo alcuna notizia di lui.
“La grazia del ritorno”
Un diario che sarebbe stato consegnato a Gerardo, se avesse ricevuto la “grande grazia del ritorno” e che avrebbe raccolto in segreto quel dolore acuto, che a tratti si fa di rabbia: rispetto per la sua scelta di non prestare consenso al fascismo ma al contempo distruzione psicologica e materiale della famiglia.
Italia non tornava a casa i fine settimana del ’44 e ’45 per non incrociare gli occhi della madre Assunta, queruli e insonni, da mesi ansiosi di notizie circa la sorte del “piccolo poeta”. Il padre Placido, intanto, tutti i giorni si recava alla fermata della littorina della Circumetnea, sperando che su una carrozza potesse esserci il figlio per poi rincasare ogni giorno più desolato.
Un dialogo affettuoso e diafano che si fa serrato e inquisitorio della coscienza come quando Italia sente lo scampanio che annuncia la fine della guerra nel tardo aprile del 1945 da quella chiesa in cui lei stessa aveva portato i suoi piccoli alunni per pregare per le sorti di Gerardo, con caramelle a ricompensa. È nella pagina che riporta la notizia diffusa per radio della fucilazione “alle spalle” di Mussolini che la giovane maestra si interroga da cristiana sull’uccisione del tiranno da un lato anche a fronte del fratello di cui non si sa nulla da mesi.
La notizia della liberazione di Gerardo arriva mesi dopo per telegramma. È definito “un miracolo”. Segue l’inspiegabile, per i familiari che nulla sanno delle sue condizioni fisiche, sosta prolungata ad Arienzo dalla zia materna Lucia, la prima che gli presta soccorso e cerca di rialimentarlo.
Gerardo si fa vivo per lettera che la sorella puntualmente trascrive, a stretto giro, in cui manifesta la gioia di riprendere, dopo anni, una penna in mano e promette di raccontare della dura prova al rientro.
Da queste pagine passa un pezzo di storia collettiva. Di tanti giovani che come Gerardo scontarono col lager il sogno di un Italia libera e democratica: pagine che restituiscono il sogno di una generazione alimentato nella profonda sofferenza di molte famiglie, quel bene collettivo che ha intinto il suo pennino nel sangue. Monito da custodire nelle coscienze.