"Sciascia, Giuda, i pecoroni" | La rabbia del sopravvissuto - Live Sicilia

“Sciascia, Giuda, i pecoroni” | La rabbia del sopravvissuto

Il post di Giovanni Paparcuri su un famoso articolo sui professionisti dell'antimafia.

Social antimafia
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Certe ferite, quali che siano il torto e la ragione, quali che siano i pensieri e le idee su cui confrontarsi, non si rimarginano mai, nemmeno dopo anni.

Si legge su facebook: “Si celebra l’anniversario della morte di Leonardo Sciascia, io non lo ricordo per questo, ma lo ricordo benissimo per l’articolo sui professionisti dell’antimafia dopo che il dr. Borsellino fu nominato Procuratore capo della Repubblica di Marsala, e poi come pecoroni e da Giuda, perché lo disse Sciascia, tutti a criticare ed attaccare quei giudici”.

“Io ricordo soltanto che il giudice Falcone, dopo quelle critiche venne bocciato su tutti i fronti: fu bocciato come successore del Consigliere Caponnetto, fu bocciato come Alto Commissario, non fu nominato consigliere al CSM, ha dovuto rinunciare a fare il professore a contratto alla facoltà di Magistero, le accuse che la dinamite all’Addaura se la fece mettere proprio il giudice, la vicenda del corvo di Palermo, e tanto altro ancora. Io questo ricordo e dell’anniversario della morte di Sciascia non mi interessa niente. Giuda allora, Giuda adesso”.

E’ un punto di vista pesantissimo, che può apparire eccessivamente ingeneroso, al cospetto di un intellettuale di quel calibro, invischiato in tante questioni culturali per la sua desuetudine alla pavidità. Sciascia era fallibile e lo riconosceva, ma aveva l’onestà di andare contro la corrente, se lo riteneva opportuno, ragionando. E ci ha lasciato pagine di profezie e di coraggio civile, al netto di eventuali inciampi.

Tuttavia, nemmeno chi si esprime con tanta durezza è passato indenne da quella stagione. Anzi, ha pagato il prezzo, anche lui, della propria onesta fedeltà, con il corpo. E chi si esprime, mettendoci la faccia, è Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici, stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, incessante stimolo di memoria. Ecco perché le parole pesano di più. E ci interrogano, puntando dritte al cuore, senza ipocrisia.

L’articolo, famosissimo, a cui Paparcuri si riferisce fu pubblicato dal ‘Corriere della Sera’ il 10 gennaio del 1987 e altri ne seguirono in risposta a una marea di polemiche.

Scriveva il maestro di Racalmuto, iniziando con la recensione di un saggio sulla mafia: “Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come « mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando”.

Infine, tra gli altri esempi, la citazione della promozione del dottore Borsellino: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”.

Sono appena gli stralci di un commento che aprì una sequela di ripicche e veleni sul senso stesso dell’antimafia. Sciascia, successivamente, spiegò che l’oggetto della sua critica era il metro di giudizio del Csm, non il giudice, morto, da eroe umile, con la scorta, in via D’Amelio. Magari sarebbe stato meglio non coinvolgerlo. Pensieri del poi. E la ferita fa ancora male.


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