Un celebre brano dei R.E.M., Losing my religion, datato 1991 ma resistente al tempo e alle mode, descrive lo sconforto di un uomo sopraffatto dalla vita, costretto all’angolo e tuttavia esposto alle luci dei riflettori, che sta smarrendo ogni sostegno, fede o ragione che sia.
Un movimento tanto sottile da essere impercettibile ha spostato i confini tra morale pubblica e privata, spingendo all’appiattimento, verso un abisso etico, prima che culturale.
Siamo di fronte a un mutamento antropologico, indotto da un progresso molto miope, per non dire cieco. Al culto religioso si è andato sostituendo quello tecnologico, connotato da una adorazione ben più fanatica di qualsiasi sacerdozio, sostenuto da un concetto di sicurezza sociale che stronca le più elementari libertà individuali.
La fede in un Dio – al di là delle confessioni religiose – si è tanto annacquata da svuotare i templi. Le feste non sono più celebrazioni di antiche alleanze, né veicoli di socialità, ma occasioni di gite verso ipermercati ovunque uguali.
Ci si ritrova, infine, affratellati da un panino di plastica. Disintegrata ogni fiducia nell’uomo, probabilmente a ragione, come poteva resistere quella nell’invisibile?
Sempre più terrorizzati dall’ultima giustiziera, respingiamo perfino l’idea della morte, specie di quella di massa, che releghiamo al rango di telefilm. Eppure proprio per questo la fine della vita materiale è vincente: è il comune denominatore reale tra tanto conformismo verbale.
La fede nei dogmi imposti dai social ha spostato il concetto cristiano di amore per il prossimo verso due direzioni: sei come me, mi piaci (nel senso del “like”, non di qualsivoglia affezione); non la pensi come me, ti aggredisco, protetto da una tastiera, e dalla possibilità di cancellare, come di essere cancellato.
Costanti imposizioni invitano, col ricatto morale, a proclami a favore delle minoranze, mentre a tanta ipocrisia non corrisponde il giusto rispetto nella prassi.
A fronte della moltitudine di sepolcri imbiancati, sedicenti anticonformisti esternano teorie terrapiattiste e complottiste. Non c’è gran che da scegliere. O forse sì, la solitudine.
E in effetti, visto che ogni tentativo di libero pensiero viene denunziato, l’autocondanna al solipsismo forse è l’ultima strada per non caderci, in quell’abisso di immorale indifferenza.
Siamo schiavi d’una invisibile tirannide? Dove risiede l’interesse a indirizzare un popolo docile alla supina accettazione di tecnologie in grado di controllare le azioni, e presto anche la mente? Sì, sono utili, sono il traguardo della scienza, sono il prodotto dei tempi; sono il nuovo frutto dell’albero del bene e del male, ma non quello colto con ingenua sensualità dal curioso Adamo: quello che, marcio, ci cadrà sulla testa mentre veniamo estromessi non già da un paradiso, ma da quel che ci resta, lo scampolo di noi stessi.
L’enigma resta come questo subdolo controllo ci sia divenuto necessario o comunque non facilmente rimovibile. L’anelito alla libertà dovrebbe essere quel retaggio essenziale che renda l’esistenza degna di essere vissuta; l’essere privati di una serie di riferimenti storici, da parte di chi vuole impedire non solo di studiarla, la storia, ma persino di discuterne, porta alla disintegrazione di quel che eravamo e di quel che potremmo essere.
Demonizzati lemmi come verità, valori, ideologia, e potremmo stilare un lungo elenco, concetti indotti li soppiantano velocemente, delimitando un modo di vivere.
Una legiferazione ossessiva e onnipresente copre tutti gli spazi; il minimo pensiero fuori controllo appare intollerabile. La tensione di ogni paese civile corre verso l’individuazione e la regolamentazione di ogni possibile obsoleta stranezza.
Speriamo che a nessuno venga in mente di monitorare i resistenti nuclei di lettori, perché, così come è diventato di spiazzante attualità l’orwelliano 1984, potrebbe presto esserlo l’altrettanto distopico Fahreneit 451 di Bradbury, che preconizza un mondo in cui ai pompieri non è richiesto di spegnere gli incendi, bensì di accenderli per bruciare i libri.
E a proposito di incendi e di fumo, è di questi giorni una nuova enfasi politica riguardo al divieto di fumare nei luoghi pubblici e all’aperto, in Italia e nel mondo.
Al di là dell’ovvio dato di fatto che il fumo sia nocivo – absit iniuria verbis, considerato che chi scrive non è, né è mai stata, fumatrice -, è quel che sottende a queste normative che è poco chiaro. Il riferimento è al cosiddetto “effetto alone” che il divieto di fumo induce sui comportamenti collettivi, rendendo socialmente meno accettabile l’atto del fumare.
Questo meccanismo, che influenza la valutazione di una persona, o di un fatto, in base a poche informazioni, o a un solo attributo positivo o negativo, ha un impatto sulle dinamiche psicologiche delle nostre percezioni e delle nostre scelte.
Come mai non viene applicato riguardo ad altro genere di consumi, o per demonizzare la discriminazione razziale e sessuale, la violenza domestica e di genere, l’attitudine all’uso delle armi?
Marzullianamente ci daremo una risposta nel nostro privato, sperando che rimangano lecite alcune occupazioni, come leggere, o correre, qualora non ci distolgano troppo a lungo dagli schermi dei nostri devices.
L’ abisso è ogni giorno più profondo e non si intravedono volontari che, piuttosto che dedicarsi a faraoniche opere inutili, oltreché dannose, intraprendano la costruzione di un ponte che lo superi guidandoci verso un nuovo umanesimo.
Raccontare quest’ultimo scorcio di Storia, richiederà il coraggio di restare saldi sull’orlo del precipizio per descriverne l’orrore.