CATANIA – La vita di Santo Sicali si basa su famiglia cavalli e droga, molta droga. Sposta marijuana e cocaina da un capo all’altro d’Europa collaborando con trafficanti calabresi, pugliesi, albanesi e olandesi, e maneggia soldi e droga riuscendo a fare affari con tutti nella piazza di Catania, fornendo due clan mafiosi come quello dei Cappello-Bonaccorsi e quello dei Santapaola. Ci riusciva, il quarantenne Sicali detto “Spaccatello”, senza dare troppo nell’occhio, al punto che la sua doppia vita, una da uomo onesto e una da narcos, ha dato il nome all’operazione che ha portato in galera lui e altre undici persone: “Alter ego”.
Scatole di pasta
Non è stato nessun gesto eclatante a tradire Sicali e la sua vita di basso profilo, almeno dal punto di vista di un narcotrafficante. È bastata una serie di coincidenze capitate nel corso di tre diverse operazioni delle forze dell’ordine nel 2018. Nella prima, due persone sono state scoperte a trasportare in un appartmento 242 chili di hashish, contrassegnati con le lettere “FF” e nascosti in alcune scatole di pasta Barilla. Nella seconda, una perquisizione a casa di Sicali avvenuta pochi giorni dopo, sono stati ritrovati 300 mila euro in contanti e, in uno sgabuzzino, dei pacchi di pasta Barilla vuoti, dello stesso tipo di quelli in cui era contenuto l’hashish del primo sequestro. La terza, a poco più di un mese dal sequestro di droga, ha visto l’arresto di Rosario Zagame perché in casa sua sono state trovate diverse armi e munizioni e 57 chili di hashish, anche questa volta con il contrassegno FF.
Per gli investigatori, il caso era troppo puntuale: ricorrevano quelle sigle e quegli scatoloni, e qualcosa doveva collegare le persone ritrovate in possesso della droga con Sicali. L’ipotesi era che Sicali avesse fornito in entrambi i casi la droga, e da quel momento sono scattate le intercettazioni ambientali, telematiche e telefoniche ai danni di Sicali, Zagame, di Gregorio Drago e Raffaele Maria Missiato, ovvero i due trovati a trasportare hashish negli scatoloni di pasta, e di Antonino Sebastiano Battaglia, a cui era intestata l’auto da cui Drago e Missiato stavano scaricando la droga.
Il broker che parla con tutti
Secondo la ricostruzione contenuta nell’ordinanza applicativa di custodia cautelare del Gip di Catania, Santo Sicali era un vero e proprio centro di smistamento della droga per diversi gestori di piazze di spaccio del catanese e della Sicilia orientale. Utilizzando le sue stalle in zone agricole del catanese riceveva e consegnava marijuana, hashish e cocaina, regolava i prezzi tenendo in casa centinaia di chili di droga in attesa che diventasse conveniente smerciarla, teneva i contatti con trafficanti di mezza Italia e in Europa. Uno che trattava il mercato della droga come una qualsiasi altra attività imprenditoriale ad alto rischio, con i prezzi di acquisto e quelli di vendita da trattare, clienti da accontentare, fornitori che chiedono il saldo di debiti, consegne e trasporti da organizzare.
Il lavoro di Sicali era, si legge nelle carte del Gip, indipendente da un clan specifico, al punto che, pur fornendo regolarmente droga sia ai clan Cappello-Bonaccorsi che a membri del clan Santapaola, lo si lasciava lavorare, e lo stesso giudice non ha ritenuto di inserirlo tra coloro che hanno commesso il reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. In altre parole, Sicali faceva affari con tutti ma non era in squadra con nessuno, riuscendo in questo modo a “servire” sia la piazza di spaccio di Villaggio Sant’Agata che quella del quartiere di San Cristoforo.
Le intercettazioni e il mercato della droga
Dai nastri con le conversazioni registrate di Sicali esce fuori una mappa del narcotraffico nella Sicilia orientale, del modo in cui si svolge, delle sue dinamiche. “Spaccatello” parla spesso dei suoi contatti calabresi, pugliesi, albanesi o olandesi, a volte lamentandosene perché, come in quest’ultimo caso, chiedevano pagamenti in anticipo e l’esclusiva sull’organizzazione del trasporto, che invece Sicali avrebbe preferito affidare a persone incensurate di sua fiducia.
In altri casi, Sicali ragiona da vero uomo di business e spiega ai suoi interlocutori, gente a cui vende grosse partite di droga, che di fronte a un sequestro di droga in cui si perdono 300 o 400 mila euro non bisogna considerare come perdita solo ciò che si è investito, ma anche quello che si sarebbe potuto guadagnare con la vendita della droga sul mercato.
Da intermediario, però, spesso a Sicali toccava garantire gli investimenti e i debiti altrui: in una occasione, a un calabrese che gli chiede se un tizio avesse pagato una grossa partita di cocaina, Sicali risponde che “Nino” ha avuto problemi con un sequestro, aveva chiesto sei mesi di tempo per ripagare il debito con rate da 5 mila euro al mese, e che “l’importante era che non l’avessero preso”, ovvero arrestato.
L’arresto di Sicali
La scena dell’arresto di Santo Sicali ha un che di sceneggiato, come se la realtà si ingegnasse per superare la finzione. Quattro del mattino, via del Plebiscito a Catania. Nel buio, Sicali sta passeggiando con un calesse trainato da un cavallo e viene fermato dai Carabinieri. Durante una perquisizione in casa sua vengono trovati 72 mila euro in banconote di piccolo taglio, ma niente droga. Poi la perquisizione in due casolari di Sicali nella zona di San Giuseppe la Rena, e in una canaletta vengono trovati diciannove pacchetti di cocaina di più di un chilo ciascuno, munizioni, una pistola, un fucile.