Ci salveranno le vecchie zie. Senza neppure il punto di domanda messo da Leo Longanesi nel titolo del suo libretto, anno 1953. Mezzo secolo fa le vecchie zie non andavano al cinematografo, conoscevano dieci modi per riciclare il lesso avanzato, avevano fede nell’avarizia considerata “un segno di decoro, un principio morale, una norma pedagogica”. Oggi son titolari di pensioni – anzianità, invalidità, reversibilità – e tanto basta per renderle interessanti agli occhi dei nipoti privi di posto fisso. “Andiamo a quel paese” – l’ultimo film di Ficarra e Picone che ha chiuso tra gli applausi il Festival di Roma, nelle sale dal 6 novembre – acchiappa la contemporaneità come ogni film comico dovrebbe fare.
Rende omaggio ai maestri, da Pietro Germi a Neil Simon di “I ragazzi irresistibili”: da lì viene la scena dello sputo con la “p” o la “t” e il dito picchiettato sulla spalla dell’interlocutore, tormentone che i nostri prendono a prestito dal film di Herbert Ross (ma se uno non lo sa ride lo stesso: il litigio degli anziani attori da vaudeville si adatta benissimo alle beghe dei quarantenni palermitani). Difficilmente si sarebbe potuto ambientare il film fuori dall’Italia, paese dei diritti acquisiti e dell’arte di arrangiarsi. In questo caso, vampirizzando i vecchietti di un paese della Sicilia profonda, che si chiama Monteforte nella finzione e Rosolini nella realtà. Tanto profonda che a guardarla da Palermo viene il dubbio “Lì è ancora Sicilia?”. Lo è, e nel frattempo con tutta la Val di Noto è diventato un posto per vacanzieri chic, complice l’Unesco che lo ha dichiarato “Patrimonio dell’umanità” (gli fa concorrenza il turismo cinematografico sui luoghi dove hanno girato la serie tv con il commissario Montalbano, arrivano numerosi anche dall’estero).
La coppia comica rispetta le regole: uno le dà e l’altro subisce, uno è prepotente e l’altro mite, uno architetta piani e l’altro si fa trascinare, uno rimane serio e l’altro fa le smorfie. Pensate a Stanlio e Ollio, ai Fratelli De Rege di “Vieni avanti cretino!”, a Franco Franchi e a Ciccio Ingrassia, ai clown noti nella tradizione come il Bianco e l’Augusto, appunto quello dei due che avanza con i vestiti e le scarpe fuori misura e per contratto “prende gli schiaffi”(“He Who Gets Slapped” era il titolo di un bellissimo film muto del 1924 con Lon Chaney: la storia di uno scienziato che finisce al circo per la delusione di un doppio tradimento – moglie e migliore amico, amore e lavoro – quindi si lascia tormentare). Salvo (Ficarra) appartiene alla Sicilia “sperta”: è furbo, o almeno convinto di esserlo, sempre prodigo di brillanti iniziative. Valentino (Picone) appartiene alla Sicilia “babba”: di suo sarebbe più riflessivo, se non rassegnato, cosa che agli occhi dell’altro lo qualifica senz’altro come tonto, o almeno sospetto di esserlo.
Uno è adrenalinico, per quanto lo possa essere un siciliano, e ha i capelli arruffati dei personaggi da fumetto che hanno appena infilato le dita nella presa. L’altro è pacifico, con la faccia da bravo ragazzo imbranatissimo in materia di femmine. Per difetto, come accade qui. O per eccesso, come accadeva nel film precedente, “Anche se è amore non si vede”, il primo diretto da Ficarra e Picone senza Giambattista Avellino (coregista in “Il 7 e l’8” e La matassa”) e l’unico ambientato fuori dalla Sicilia. Valentino amava Gisella (Ambra Angiolini), e la sfiniva regalandole orecchini a forma di cuore, cuscini a forma di cuore, pasticcini a forma di cuore, orologi a forma di cuore. Senza rispetto per le ricorrenze, andavan bene anche gli otto anni e quattro mesi. Lei, poco pratica di non-compleanni o di non anniversari, apprezzava poco.
“Andiamo a quel paese” comincia a Palermo, con Salvo e Valentino che impacchettano i bagagli per traslocare al paese natìo. Le cose preziose di Valentino sono gettate da Salvo nel cassonetto della spazzatura, omaggio a Totò che nel vagone letto butta le valige dell’onorevole Trombetta fuori dal finestrino (si salva solo la laurea sotto vetro). Monteforte ha un barbiere, un commissario dei carabinieri che è l’ultimo a sapere i pettegolezzi, una corriera che arriva dalla città, un bar con i vecchi che giocano a carte, introdotti da una voce fuori campo che si svela solo alla fine (primo applauso: non serve per illustrare senza fatica i personaggi, come nei film comici scritti e diretti con il pilota automatico, ma serve alla trama). Ha anche un onorevole, tale Lo Duca, a cui Salvo intende chiedere una raccomandazione, per aumentare il Prodotto Interno Lordo (“Per questo si chiama Lordo, se no lo chiamavano Pulito”, spiega a Valentino). Scientificamente: ha un grafico con frecce colorate e nomi circolettati, che conducono dal questuante al politico che procura un lavoro fisso, o almeno una consulenza ben remunerata.
Poi scopriamo che i molti gradi di separazione si possono ridurre a uno solo: l’onorevole è in prigione, basta farsi incarcerare nella cella accanto (leggi: basta che Valentino si faccia incarcerare nella cella accanto). Il passaggio dal cabaret al cinema comporta difficoltà che la coppia Ficarra & Picone non patisce. “Il 7 e l’8” sfruttava una delle trame più popolari di sempre, lo scambio dei neonati in culla (dispetto di un infermiere che ha perso la lotteria di Capodanno per un solo numero, quindi piazza il pupo della culla 7 nella culla 8). Come nel film “La vita è un lungo fiume tranquillo” di Etienne Chatilliez, o nel romanzo “I figli della mezzanotte” di Salman Rushdie, dove l’infermiera scambia il povero e il ricco per rivalsa sociale. Gli sketch del repertorio erano ben distribuiti nella trama, con un occhio alla Grande Scommessa fatta dai miliardari in “Una poltrona per due”: conta più la natura o l’educazione? Fu un successo a sorpresa, puro passaparola. Non c’è come divertirsi, per aver voglia di raccontarlo in giro.
Ben costruito, al netto di qualche inutile flashback sull’infanzia, era anche “La matassa” (uscì due anni dopo, nel 2009). La storia di due cugini che da vent’anni non si parlano, per via di una bega tra i genitori – questione di roba, come nel racconto di Luigi Pirandello intitolato “La Giara” – e si ritrovano al funerale di un litigante. Il tocco di contemporaneità era l’agenzia matrimoniale che procurava vecchietti italiani alle immigrate bisognose di cittadinanza, con i mafiosi che si scambiavano pizzini come in un quiz televisivo (“vuole la uno, la due, o la tre?”). La metropolitana di Catania – esiste, anche se prima del film nessuno ne aveva mai sentito parlare – serviva per un inseguimento. “Ken ha lasciato Barbie per la Befana”: questa la nuova favola della buonanotte per la figlia di Salvo, che è sveglia e capisce subito che il vero petrolio di Rosolini ormai sono i vecchietti, e soprattutto le vecchiette. Più longeve, tra l’altro. Insidiate e fischiate quando camminano per strada, nelle scene più divertenti del film, come si insidiavano e fischiavano per strada le ragazze in “Sedotta e abbadonata” o in “Divorzio all’italiana”.