Come vedere un paesaggio dal finestrino di un treno in corsa; questa è la sensazione. È il pronto soccorso di un ospedale di questa città, una delle trincee della grande guerra in atto. Proprio come lo scenario in rapidissima successione dal finestrino di un espresso; fotogrammi disintegrati, tutti simili e tutti diversi, sullo sfondo grigio fumo della pandemia. Raccolgo l’immagine da una cara collega in “smonta” dalla notte. È esausta, perché arriva un momento in cui al già fatto si somma il molto ancora da fare, e si può avvertire come un senso di incompletezza; di andare via proprio ora che l’ondata sta salendo ancora, come codardi. Eppure, si è fatto più del proprio dovere.
Ha negli occhi ancora l’ultimo dei casi arrivati in concitazione alle prime ore dell’alba. Un tipo sulla quaranta-cinquantina; respira con difficoltà, il viso è tirato, spaventato. Presto le prime cure, l’ossigeno, un laccio emostatico al braccio. Scorrono velocissime le immagini dal finestrino del treno.
Qualcuno esegue il tampone rapido; ora bisogna fermarsi per attendere l’esito, ma non per molto: di là c’è un’altra ambulanza in arrivo. Giusto qualche minuto per una conoscenza sommaria. Dice di chiamarsi Gaetano, “Tanino, per la famiglia e gli amici”. Mestiere? “Ambulante. Ma nella vita ho fatto tanti lavoretti” dice. C’è un pallore che accomuna paziente e medico; l’uno oppresso da un affanno che non accenna a calmare, l’altra stremata dalla stanchezza. “In regola?”; che domanda… L’infermiere sta prendendo una vena. “Onestamente, haiu travagghiatu sempre in nero”, e non c’è né il tempo, né la voglia di sorridere per questa perla di involontaria, stramba carica umoristica.
“Dottoressa, mi faccia l’iniezione e mi faccia andare a casa…”, in un dialetto stretto e appena sussurrato, per via della dispnea. “A casa? Da quanto tempo stai male, eh?”. Tanino non risponde; ha continuato a lavorare per giorni, trascurando e ignorando pericoli e divieti. È rimasto in silenzio, evitando di pensare a brutte cose. Gli altri non hanno mai sospettato niente; i soliti saluti, le solite allegre superficialità, le solite negligenze, “Buongiorno da Mondello!”
Il tampone è positivo. Non c’è tempo da perdere, il paziente va trasferito d’urgenza in un altro ospedale. L’infermiere raccoglie da terra una scarpa, caduta a terra mentre il paziente veniva caricato già in un’altra ambulanza. Altri fotogrammi dal finestrino.
Se il lavoro è “nero”, è perché non c’è colore migliore per dipingere la disperazione. “Nero” perché nascosto dal buio intangibile del “tutti sanno tutto” e da quello tangibile della tolleranza e dell’omertà. Un’economia sommersa ma non troppo, capace di spostare capitali fatti di molliche e spiccioli; un’economia troppo comoda da correggere e riconvertire in canali più virtuosi. Adesso, dalle nostre parti, anche grande sorgente di contagio, perché se “tutti sanno tutto”, a questo “tutto” sfugge il protagonista assoluto e invisibile delle nostre attuali sventure pandemiche. Evidentemente.
Certo, anche la nostra realtà è fatta di movìde e assembramenti, da redarguire giustamente e vigilare per le strade e le piazze, come nella restante parte del Paese. Ma c’è anche il disvalore aggiunto del lavoro nero, che difficilmente si potrà disinnescare e disarmare, che sostiene come un basamento di sabbia l’economia della città da un tempo incommensurabile. E su cui può correre contagio in incognito, sotto traccia.
La pandemia è tutta racchiusa in un “o la borsa, o la vita” di portata planetaria, lo sappiamo. Abbiamo compreso quanto sia sotto scacco la nostra sopravvivenza, nel dilemma se soccombere all’infezione o alla fame. Ma a soffrire di più c’è la fascia degli ultimi, quelli che potrebbero soccombere per l’una e per l’altra insieme. E se il lavoro nero accomuna miseri e truffaldini poco importa: ad accomunarci davvero è la nostra fragilità. E una solidarietà che stiamo imparando a conoscere con difficoltà, nel rispetto di regole che ci proteggono tutti.
Dall’altro ospedale arrivano notizie incoraggianti; Tanino è al sicuro. Ci chiediamo, adesso, cosa sia il “sicuro”; me lo chiede lei, stremata dalla fatica e in procinto di tornare a casa. Con negli occhi le immagini in linee orizzontali raccolte da un treno in corsa. Verso una meta che un giorno conosceremo.
Un giorno vittorioso, quando tutto questo sarà finito.