Caro Matteo,
Chissà cosa penserai di noi? Chissà se tornerai a raccontarci la favola del Ponte e dei sogni, nell’ora più buia della notte? Hai perso il referendum anche perché hai perso la Sicilia. Ma tu lo sai perché hai perso (anche) la Sicilia?
Tu, sei venuto quaggiù – quattro volte – nella terra sconsacrata da Rosario Crocetta, per parlarci della meraviglia che potremmo diventare, tralasciando la disperazione e l’offesa che incarniamo.
Volevi essere credibile? Avresti dovuto premettere una semplice verità: ‘Questo presidente della Regione, tale Saro da Gela, è ‘politicamente impresentabile’. E’ una macchietta della rottamazione. Gli tolgo il sostegno e faremo di tutto per cacciarlo”. Allora ti avremmo riconosciuto, se non come capo, almeno come interlocutore onesto, riforma o non riforma. E forse il tuo Sì avrebbe vinto, oppure sarebbe stato sconfitto con una minore virulenza.
Invece sei venuto a narrarci la favoletta dei sogni e del ponte, non nominando mai Saro, salvandolo, perché credevi di salvare te stesso. Hai visto con quale gratitudine ti ha ripagato? Saruzzo si è subito sfilato dalle macerie con un guizzo, ché nella disciplina olimpica della sottrazione di responsabilità è un campione del mondo. “Dimettermi? – ha detto -. Chi lo chiede strumentalizza il voto. Credo che in Italia se c’è qualcuno che non viene scalfito dall’esito del referendum sia proprio io. Io non ho mai attaccato il fronte del ‘No’, sono stato leale nei confronti del segretario del mio partito ma non penso di essere stato tra i falchi del ‘sì'”.
E poi la pugnalata allo sconfitto: “Il mio governo sarebbe stato messo in discussione da pezzi della maggioranza se avesse vinto il ‘sì’. Penso a cosa avrebbero urlato i renziani di Sicilia”. E se tu, a questo punto, parlassi di miserie umane e politiche – Matteo – chi potrebbe darti torto? Dunque, No. No a Saro e alla sua prosopopea da mattatore di troppe finzioni.
Caro Matteo, qualcuno ci ha preso gusto, magari. E adesso si consentirà altre negazioni.
Vuoi qualche esempio? Eccolo. Da palermitani, stavolta. No a una città prigioniera, soffocata, malmessa. No alla propaganda di Palazzo delle Aquile che vuole convincerci che stiano spuntando i fiori di campo nel deserto. No ai cantieri che rischiano di durare all’infinito. No alla menzogna dell’ingannevole felicità.
Eppure, a Leoluca Orlando, potremmo anche dire umanamente Sì, se solo lui volesse. Abbiamo letto della sua paura di padre: “Mia figlia vive a Parigi e il 13 novembre dell’anno scorso era al Bataclan, si è salvata per un caffè”. Al Bataclan, teatro di una strage. L’abbiamo percepito quello spavento, quella tenerezza presa dal panico, provando affetto sincero, sincera solidarietà. E ci piacerebbe che il sindaco si chinasse ad ascoltare il battito del cuore della sua città, senza filtri, senza secondi fini, come noi abbiamo ascoltato il suo.
No. No. E No. A chi ha fatto macelleria mediatica della sofferenza più esposta, quella che nasce e muore tra le corsie di un ospedale. No alla ridicola campagna elettorale del Pd, spacciata per convegno all’ospedale ‘Cervello’, a due passi dal cupo ansimare del dolore. No alle perline colorate – le assunzioni, per esempio, la rete ospedaliera, per esempio, tutto in vista del 4 dicembre, dopo la minaccia di commissariamento – sparse dalla tua Beatrice Lorenzin. No al politicamente ributtante codazzo, d’accompagnamento al ministro, che ha preso alla gola la Sanità, per trasformarla in una Vandea di clientele.
Caro Matteo, guardaci come un uomo, non come un politico, chi – da siciliano, solo da siciliano – avrebbe potuto dire Sì?