Qualche giorno fa la quarta Commissione legislativa dell’Ars ha esitato un disegno di legge del governo regionale che, fra l’altro, impone ai comuni “l’immediato sgombero e l’interdizione all’uso di tutti gli immobili realizzati in totale assenza di titolo abitativo nelle aree a pericolosità elevata e molto elevata e in quelle sottoposte a vincolo di inedificabilità che implichino rischi per la sicurezza e l’incolumità pubblica”.
A circa quattro mesi dalla tragedia di Casteldaccia la politica regionale è tornata ad occuparsi di abusivismo edilizio, un problema che affligge il territorio siciliano (e non solo) da decenni, alimentato da fattori di ordine sociale, economico, politico, profondamente radicati: diffuso fabbisogno abitativo, presunzione di impunità, reazione alla assenza di regole certe e alla lentezza ed inefficienza burocratica, copertura politica ecc.
L’insieme di questi fattori ha creato una situazione talmente anomala ed allarmante da indurre la politica, e persino la Corte costituzionale, a ritenere che in Sicilia l’imposizione di regole restrittive e la severa repressione degli abusi avrebbe potuto generare problemi di ordine pubblico, e di conseguenza ad optare per la creazione di una forma di legalità più permissiva, finalizzata a disciplinare e contenere il fenomeno piuttosto che contrastarlo duramente.
Questo da allora è diventato il principio ispiratore delle politiche pubbliche, che ha legittimato l’ammorbidimento dei vincoli urbanistici, condoni e sanatorie, omissione di controlli e sanzioni.
Legislazione permissiva, netta separazione tra competenze in materia urbanistica e ambientale e tra pianificazione paesistica e territoriale, farraginosità delle procedure, inefficienza amministrativa, carenza di risorse, di programmazione e di coordinamento tra le istituzioni, omissione dei controlli, diffusa percezione di impunità e sottovalutazione del pericolo hanno contribuito ad orientare una consistente quota di fabbisogno abitativo verso la realizzazione di immobili abusivi.
In una Regione in cui il rischio idrogeologico riguarda circa il 90 per cento dei comuni ed un territorio esteso circa mille chilometri quadrati risulta abusivo quasi il 49% degli immobili, molti dei quali realizzati in zone con vincolo ambientale o entro le fasce di rispetto marittimo, lacuale o fluviale.
Una situazione di illegalità talmente diffusa poggia evidentemente su macroscopiche carenze nelle attività pubbliche di governo del territorio.
L’incerta distribuzione delle competenze istituzionali nelle materie strategiche (ambiente, lavori pubblici, urbanistica) e la proliferazione di enti, agenzie ed organismi tecnici hanno frammentato ed annacquato le responsabilità, moltiplicato i centri decisionali gli strumenti di pianificazione e le procedure, prodotto duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, alimentato il contenzioso; i vincoli alla spesa pubblica, la riduzione delle entrate e la carenza di personale tecnico hanno privato gli enti locali, soprattutto quelli più piccoli, delle risorse umane e finanziarie necessarie per le attività di contrasto dell’abusivismo e di manutenzione del territorio; la complessità delle regole sugli appalti pubblici ha ostacolato la tempestiva esecuzione delle opere necessarie a prevenire il rischio idrogeologico; l’inefficienza degli enti locali nella gestione delle politiche urbanistiche ha alimentato la presunzione di impunità, che ha fornito un contributo decisivo al dilagare dell’abusivismo.
Pochi comuni hanno realizzato il censimento degli immobili abusivi richiesto dalla Regione, nonostante gli elenchi delle cosiddette case fantasma siano stati diffusi dall’agenzia del Territorio tra il 2007 e il 2009; l’83,6 per cento delle ordinanze di demolizione sono rimaste inattuate e continuano a sopravvivere almeno 23mila immobili abusivi; negli uffici comunali giacciono da anni circa 770mila domande di sanatoria edilizia, che spesso riguardano richieste prive dei requisiti, che gli uffici comunali, non potendo accogliere, “dimenticano” di esaminare; i controlli sulla pianificazione comunale e sul rispetto degli adempimenti di legge si sono rivelati inefficaci e raramente la Regione ha esercitato i poteri sostitutivi previsti dalla legge e sanzionato gli enti inadempienti.
Le amministrazioni pubbliche indicano la carenza di risorse come principale causa della scarsa manutenzione del territorio e della sopravvivenza di manufatti abusivi, ma la maggior parte degli enti locali non irroga agli autori degli abusi la sanzione fino a 20 mila euro prevista dalla legge, e consente loro di continuare a beneficiare degli immobili senza corrispondere alcuna indennità né i tributi previsti dall’ordinamento, rinunciando di fatto a risorse preziose per finanziare le demolizioni, mentre sono rimasti sostanzialmente inattuati i 237 interventi previsti dal Patto per il Sud e finanziati con 591 milioni di euro per contrastare il dissesto idrogeologico.
Misure come quelle all’esame del Parlamento regionale contribuiscono ad invertire la tendenza degli ultimi anni all’ammorbidimento dei vincoli urbanistici, ma da una situazione così complessa si può uscire solo attraverso una strategia condivisa da tutte le amministrazioni: cooperazione e coordinamento tra le istituzioni coinvolte nella pianificazione territoriale, incentivi alla aggregazione di enti locali e forme di condivisione di figure professionali necessarie per incrementarne l’efficienza, razionalizzazione dell’attività amministrativa, dell’organizzazione burocratica e della ripartizione delle risorse tra le Istituzioni, individuazione di precisi e chiari obiettivi di performance per enti, amministratori e dipendenti pubblici riguardo alla manutenzione del territorio, alla repressione dell’abusivismo e alla efficienza nell’applicazione delle norme urbanistiche e nella gestione delle risorse, controlli efficienti, premi ed incentivi a favore delle amministrazioni virtuose, sanzioni a carico degli enti, amministratori e funzionari inadempienti.