Mio padre era un grande violoncellista e amava il suo strumento alla follia. Per niente e per nessuno avrebbe mai tradito questa sua grande passione: nella sua personale scala dei valori, e quindi nella sua vita, veniva prima il violoncello, poi tutto il resto. In ordine sparso: una bella donna da conquistare, un “assolo” di Pablo Casals (il violoncellista spagnolo che “suonava come può riuscire solo ad un angelo caduto dal cielo”), un bel libro, i figli (sette, sei maschi e una femmina, il più piccolo ero io, detto infatti “u picciriddu ra casa”) da educare spartanamente e le famose interminabili camminate a piedi (lui le chiamava le “passeggiate rivitalizzanti”) dalle Case Popolari, dove abitavamo (pressi di via dei Cantieri) al Teatro Massimo, dove lui da una vita occupava il posto di “Primo Violoncello”. Una passeggiata per figlio, che veniva scelto “ a merito”: se era stato bravo a scuola, poteva avere quest’onore, altrimenti, a cena, niente frutta per lui.
Un autentico regime, eppure io la mia famiglia, pur numerosa e fracassona che fosse, o forse proprio per questo, me la ricordo felice. E non solo perché ero un ragazzo e i ricordi della fanciullezza si colorano sempre di rosa. Ma pure perché ricevere anche solo uno sguardo benevolo da mio padre, per un bel voto a scuola o per una battuta spiritosa, era per me un gran bel regalo, perché, subito dopo, mia madre mi tirava a sé e mi schioccava un bel bacio sulle guance. Come dire: “Bravo, picciriddu miu, l’hai visto come lo hai fatto contento?”.
Poi, però, all’improvviso venne a mancare mia madre, che aveva appena 56 anni: un cancro la ghermì che era la notte di natale del ’54 e tre mesi giusti dopo, il successivo 25 marzo, se la portò via. E da quel giorno cambiò tutto a casa mia. A cominciare dalla famiglia che, già dopo pochi mesi, si era come disintegrata, così che a casa col babbo (voleva essere chiamato così, papà per lui era solo un francesismo da signorinelle) restai solo io, che ero un pischello e anche volendo dove mai potevo andare? Ricordo ancora oggi, a quasi sessant’anni di distanza, noi due soli a tavola, io e il babbo e i nostri lunghi silenzi: non avevamo nulla da dirci, perché non lo avevamo mai fatto prima. Io, le mie giornate le passavo in strada e, tornando a casa trovavo la mamma, che per me aveva un debole, quello che ogni mamma ha per il più piccolo dei suoi figli. Trovarmi d’un tratto a passar le mie serate con mio padre fu come ricevere, senza difesa alcuna, un pugno nello stomaco. Mi sentii perso, e non avevo che tredici anni.
Ma c’era la strada e c’erano gli amici e dimenticavo subito le mie pene. Ma poi dovevo tornare e c’era lui, il babbo e i suoi lunghi silenzi. Il che era anche peggio di prima, quando dava ordini e puntava l’indice: significava che c’era un castigo in vista e il reprobo di turno doveva aspettarlo in bagno per … l’esecuzione della pena. Peggio di prima perché quei silenzi pesavano più del suo regime di ferro, delle sue sgridate, dei suoi castighi codificati. Che inferno quelle serate, che non finivano mai, specie d’inverno, quando il gelo mi entrava nelle ossa ma non potevo lamentarmene perché “Non fare la femminuccia, e poi il freddo ti rende più forte nel corpo e nello spirito”.
Andare a scuola era una liberazione per me, era come assaporare la libertà, bene prezioso sempre e, nel mio caso di orfanello lasciato solo con un padre fatto tutto di ferro, l’unica via di fuga. Anche se, alla resa dei conti, solo un’illusione. Scorrevano così i mesi, dalla morte di mia madre ed io diventavo sempre più triste fra le mura di casa mia. Quanto poteva durare questa nostra convivenza di … separati in casa? mi chiedevo. Io fra tutti e sette i figli ero quello che aveva patito di più l’inflessibilità di mio padre, abituato com’ero, più degli altri, alle carezze speciali di mia madre. Speciali perché, sapendomi più bisognoso degli altri suoi figli, lei le dedicava soprattutto a me. Quanto poteva durare ancora?
Ma una sera d’inverno, che lui si era attardato più del solito in giro per la città, dopo la consueta “Prova generale” al Teatro Massimo, sentii la porta spalancarsi di botto, quasi con fragore: inusuale, per uno come il babbo, che amava il silenzio quasi quanto la “sua” musica. Entrò ed aveva uno sguardo diverso, più dolce, se possibile, e – lo ricordo ancora e mentre ne scrivo lo provo ancora – avvertii un brivido lungo tutto il corpo. Un brivido di calore che, nel freddo di quella serata, mi sembrò dolce come una lunga carezza. Cenammo e mi chiese della scuola, poi se mi era piaciuta la pietanza appena consumata. Non mi sembrava vero e io, pur ciarliero di natura, rispondevo a monosillabi, ero sorpreso, incredulo e tutto il freddo e la stanchezza di prima spariti di colpo. Che sta succedendo? Mi chiedevo fra me e me. La curiosità mi divorava, ma era bello, una sensazione mai provata prima.
Finita la cena, mi disse con un tono che non gli conoscevo, cioè suadente e pacato: “Vieni con me nel mio studio!”. Lo seguii e fremevo non sapendo dove volesse andare a parare: era la prima volta che invitava uno dei suoi figli nel suo inviolabile studio. Così inviolabile da assimilarlo più ad un sacrario che ad una stanza, sia pure dedicata al suo adorato strumento: lui si chiudeva ogni pomeriggio nel suo studio e suonava e nessuno, per nessuna ragione, doveva interrompere la sua quotidiana seduta di lavoro col suo violoncello. Mai e poi mai. Eppure quella sera d’inverno mi disse: “Vieni con me nel mio studio!”.
Entrai e mi guardai intorno per vedere se captavo qualche segnale speciale che mi potesse aiutare a velare quell’arcano. Ma non notai niente di diverso da quel che c’era sempre stato in quel luogo di raccoglimento e di passione: il violoncello appoggiato sulla spalliera della sedia, gli spartiti aperti sul leggio, il pianoforte a coda, il grande tavolo stile 400, gli scaffali della libreria che sembravano non reggere più tutto quel peso e, infine, un busto di gesso del “Duce”, che lui diceva essergli stato donato per un concerto tenuto a Roma.
“Siediti, Benvenuto : ho una sorpresa per te!”
“Ah, sì? Che sorpresa?”
“Io ci penso, lo sai, io ci penso sempre al fatto che sei rimasto solo con un padre così severo e so che non è facile, ma oggi ti farò un regalo che ti farà capire che la mia severità è a fin di bene …”.
Insomma, non si decideva a svelarsi, mi faceva stare sulle spine, tanto che sbottai: Sì, babbo, ho capito, ma me lo dici per favore di che sorpresa si tratta?”.
“Ahi… Ahi, Benvenuto! E dire che sei il più sveglio dei miei figli… L’hai dimenticato che oggi compi 14 anni? Sì, lo hai dimenticato, ma tuo padre, no: tuo padre se n’è ricordato e guarda che ti ha portato in regalo!”. Il tutto con un tono allegro per me assolutamente sconosciuto. Così detto, mi dà un buffetto sulla guancia, si gira, si alza sulla punta dei piedi (mio padre era piccoletto ma guai a farglielo notare) e allungando un braccio prende un pacco sopra la libreria, che a occhio non avevo notato: “Ecco, questo è il magnifico regalo che ti ho portato: te lo meriti, so che vai bene a scuola, anche se fai tutto da solo e non ti segue nessuno!”. Detto, fatto: apre lentamente quel pacco, liberandolo dal fiocco che lo legava e comincia a tirarne fuori il contenuto. Erano quattro libri, tomi così li chiamò, con aria saputa, per aggiungere, poi. “Ecco questi sono i quattro volumi di un capolavoro assoluto della letteratura francese: sono “I Miserabili” di Victor Hugo!. Tu leggi che poi ne parliamo!”. E me li piazzò ad uno ad uno sul tavolo, davanti agli occhi. Sul momento mi sentii preso per i fondelli (“Minchia rialu!”, pensai in dialetto, come mi capita nelle emozioni forti) ma lui aveva uno sguardo diverso, persino tenero, così feci “sì” con la testa, in segno di approvazione e sussurrai: “Va bene, babbo: grazie del regalo!”. Ma dentro ero una furia, quel malloppo tutto mi sembrava tranne che un regalo di compleanno, ma la cosa che mi deprimeva di più era il sapere di non potere sottrarmi in alcun modo a quel suo “Leggi che poi ne parliamo”. Così cominciai, seppur di malavoglia e con lo stomaco che si rimescolava, manco avessi strafocato chissà che cosa a cena: “Nel 1815 Carlo Francesco Benvenuto Myriel era vescovo di Digne…”.
Erano le nove e mezza di sera quando presi a leggere e… a mezzanotte fu mio padre a darmi un buffetto sulla testa per dirmi: “Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto, ma s’è fatto tardi: andiamo a letto!”.
Quel regalo mi fece scoprire un padre che era anche un papà, non solo “il babbo”: un papà con i suoi spigoli, i suoi spiazzanti cambi d’umore, ma col cuore e la testa del grande artista che era. E che vado scoprendo di volta in volta, man mano che passano gli anni e capisco quant’è difficile, spesso impossibile, il mestiere di padre. Ed oggi, che è la festa dei papà, te lo voglio dire, come non riuscii mai a dirtelo quando contava di più: “Ti voglio bene, papà!”.