PALERMO – Un anno dopo la prima trasmissione satellitare quantistica della storia, sperimentata in Italia grazie alla sinergia tra l’Università di Padova e l’Agenzia Spaziale Italiana, che ha reso possibile l’invio di informazioni protette fino alla distanza record di 1700 km, utilizzando un fascio di fotoni ‘sparato’ nello spazio e rispedito sul nostro pianeta in un nanosecondo, nell’ultimo scorcio del 2016 s’è inaugurata l’era della ‘rivoluzione della luce’. Dati e informazioni saranno veicolati, ad altissima velocità, dai ‘magici’ fotoni. L’accordo di collaborazione siglato tra l’ASI e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa lascerà mettere a punto tecnologie che appaiono fantascientifiche, e, invece, realizzeranno trasmissioni ultrarapide dalla Terra allo spazio.
Con buona pace di Superman, il quale, non pago dei super poteri, svolazzava per il cosmo gridando ‘più veloce della luce’, solo i fotoni, i ‘quanti’ di energia elettromagnetica privi di massa, possono viaggiare a velocità superluminali, maggiori di quelle della luce. E la fotonica, chiave di volta dell’evoluzione strategica per le applicazioni su satelliti e veicoli spaziali, farà compiere il ‘balzo in avanti’ nell’astronautica. I tempi sono maturi per incentivare le esplorazioni dello spazio, e per dare il via a una inimmaginabile velocizzazione delle comunicazioni.
Naturalmente, il progresso tecnologico è stato subito applicato all’oggetto-culto, al governatore delle nostre esistenze. Lo scorso dicembre, Intel Italia ha anticipato brani di futuro comunicando che presto anche i pensieri e le parole voleranno più veloci della luce, mediante una nuova memoria tridimensionale, che consente di spostare e immagazzinare in poco spazio più informazioni. Il nuovo Country Manager di Intel, Maurizio Riva, ha affermato che ‘si è raggiunto il limite della velocità delle fibre ottiche, ossia 100 gb per secondo utilizzando il silicio fotonico. Così il pc potrà superare la velocità della luce’.
A proposito di comunicazioni, s’impone una riflessione su come il modo di comunicare sia mutato rispetto al passato e su come si possa evolvere in un futuro davvero prossimo.
Nel suo significato originale, comunicare significa mettere in comune, ossia condividere, pensieri, opinioni, esperienze e sensazioni con altre persone. La comunicazione umana, verbale o non verbale, espressa mediante il linguaggio corporeo o paraverbale (riguardo alle modalità con cui viene espresso un messaggio: tono o volume della voce, pause, etc.), essenziale alla vita dell’uomo come singolo e come membro di un consesso sociale, è da tempo oggetto di studio. Nell’ormai classico ‘Pragmatics of Human Communication’, datato 1967 e considerato una pietra miliare della psicologia mondiale, Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don Jackson elaborarono uno schema con gli elementi sempre presenti in una comunicazione, per provare a spiegare i percorsi che portano l’individuo a costruire la propria realtà elencando quelli che, ancor oggi, vengono considerati i fondamentali assiomi della comunicazione umana, il primo dei quali sancisce l’impossibilità del non-comunicare. Difatti, nel corso di qualsiasi interazione tra persone, anche col silenzio, con un solo sguardo, o persino negandosi, un soggetto sta sempre comunicando qualcosa a un altro soggetto.
Classificato dunque scientificamente ogni scambio comunicativo, e chiarito soprattutto che non ci si sottrae all’imperativo categorico del comunicare, è opportuno ricordare che per farlo in modo efficace esistono norme convenzionali universalmente prefissate. E che, per la regola della reciprocità, arrestando ogni tanto la propria tendenza a esprimersi, e talora a esondare, è importante ascoltare e, se si vuol fare uno sforzo, prestare attenzione alle modalità espressive dei propri interlocutori. Potrebbe essere la volta buona per capirli.
La comunicazione è l’azione sociale per eccellenza; ma per costituire realmente il veicolo della socialità e della socievolezza, per esprimere il suo ‘valore di scambio’, deve promanare da soggetti che non deleghino a modalità iper-mediate la capacità di diffondere informazioni che li riguardano o di instaurare relazioni, ma recuperino una autonomia decisionale per esercitare volontariamente il proprio agire comunicativo.
La storia delle comunicazioni umane è complessa e ricca di suggestioni. Certo è che dai segnali di fumo a internet, di strada se ne è fatta tanta. Forse troppa o troppo in fretta. Questi ultimi anni hanno visto una crescita delle comunicazioni telematiche senza alcun governo né coordinamento. Centinaia di milioni di persone hanno avuto a disposizione una grande infrastruttura per scambiarsi informazioni e organizzarsi. La rete ci ha resi cittadini che vivono secondo un doppio sistema di regole: quello dello Stato e quello dello spazio condiviso della società digitale. Come afferma Giuseppe Granieri nel saggio ‘La società digitale’ (Laterza, 2006), oltre un miliardo di individui connessi tra loro stanno rapidamente delineando nuovi equilibri globali e una vera metamorfosi del sistema di valori, idee, identità culturali, politiche, sociali. Corriamo tutti in una direzione ma, parafrasando Guccini, quale sia, e che senso abbia, chi lo sa.
In effetti, accade che quello che internet, attuale sovrano assoluto delle comunicazioni, ‘mette in comune’ siano messaggi che, nella loro nient’affatto evanescente immaterialità, contengono nuove idee e vecchi pensieri, sentimenti di amore e odio, espressioni di approvazione o disprezzo, opinioni politiche, informazioni vere e false, e pure, oltre a trilioni di ricette, le risuscitate catene di Sant’Antonio in veste telematica. In buona sostanza, la rete veicola un mare, anzi, un oceano di informazioni.
Mentre proviamo a galleggiarvi, ci assale di continuo la spiacevole sensazione di essere fraintesi, o di non essere capiti del tutto. Più si comunica, meno ci si comprende, e i rapporti interpersonali ne fanno le spese.
Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione, scriveva il filosofo recentemente scomparso (quello che, mi si passi la boutade, ha chiarito una volta per tutte che ormai siamo liquidi), Zygmunt Bauman, appunto in ‘Amore liquido’ (Laterza, 2004). Comunicare è una forma di condivisione, di empatia; richiede un’armonia nella quale mettersi in gioco per sintonizzare il proprio mondo interiore con l’universo intero, per provare a rompere le mura del silenzio, dell’indifferenza, dell’isolamento, innalzate dalla dimensione spazio-temporale nella quale l’uomo si ritrova a vivere nell’era della globalizzazione, che l’antropologo francese Marc Augé ha definito, coniando un incisivo neologismo, il nonluogo, un territorio di passaggio privo di memoria e di identità etnica.
‘Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri’, scriveva Cesare Pavese ne ‘Il mestiere di vivere’. Un profondo disagio esistenziale lo indusse a dare all’interrogativo una drammatica soluzione finale. Sulla prima pagina dei ‘Dialoghi con Leucò’ lasciò scritto: ‘Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi’. Una forma estrema – e lucida – di comunicazione, che coglieva gli effetti e le distorsioni del comunicare.
La solitudine torna a essere la condizione naturale originaria. ‘Non sono più solo di un barbasso o di un dente di leone nel pascolo, di una foglia di fagiolo, di un’acetosa, di una mosca cavallina, o di un calabrone’, scriveva Henry David Thoreau. Poi, però, quando per istintivo moto ancora ci accostiamo agli altri, sono tante le storie che ascoltiamo, tantissime quelle che immaginiamo scrutando le vite degli altri; storie, in particolare quelle di adolescenti e anziani, che un dolore muto attraversa. Ci riguardano tutte, perché, come recitava una vecchia canzone, gli altri siamo noi.
Viviamo un paradosso: disponiamo di infiniti strumenti di comunicazione, eppure manchiamo dell’essenziale per parlare e ascoltare; non ci possiamo più dire soli, ma sentiamo di esserlo. Mentre siamo sempre ‘connessi’, la nostra sfera emotiva si riduce. L’intero edificio dell’affettività, quello che stiamo sgretolando, minandolo alle fondamenta, era parte dei misteri della creazione e della natura; era il simbolo delle capacità umane, di bellezza pari a un cielo stellato, di forza pari alla tradizione. E ora che dominiamo un’energia mai svelata prima, ci assoggettiamo a perdere il nostro fondamentale connotato, l’umanità, schiavi di noi stessi. Giunti a un passo dalla perfezione, compiamo un destino di incomunicabilità causato da un progresso che diventa involuzione. E scopriamo il bisogno urgente di ritrovare un linguaggio condiviso, di inventare un nuovo esperanto dell’era spaziale la cui funzione sia l’azzeramento delle lontananze impenetrabili introdotte dalle algide comunicazioni della rete, che ci hanno confinato in un contemplativo e silente orgoglio da triste eroe di Blade Runner, la cui missione è l’eliminazione dell’immagine di se stesso, o da gigante dai piedi d’argilla, la cui forza è solo vuota apparenza. Basta poco a svelare il replicante, basta un soffio per far crollare l’idolo. E presto non si tornerà più indietro.
Esprimo le paure degli epigoni di un mondo scomparso, di una civiltà perduta? Di una generazione conclusa? Chissà. Forse è solo la nostalgia che ci fa bruciare i ricordi sull’altare della cultura che è stata, e non è più, motore vitale, per esorcizzare l’incalzare della malinconia nella lucida e delusa intuizione di un’umanità condannata per sua stessa colpa. Né appare, all’orizzonte, un aedo non vedente che, col fascino del racconto, traghetti il passato al futuro, e colmi nel presente narrativo la distanza, spaziale e temporale, di un popolo e di un luogo dalla propria identità per ricostruirne e rinominarne la storia. Quella distanza dal nostro piccolo mondo antico, sia esteriore che interiore, si è tanto accresciuta da diventare incolmabile.