Immaginiamo una bilancia. Su un braccio mettiamo la felicità spezzata per sempre insieme con l’amore. Mettiamoci i sorrisi che rimarranno sepolti, la freschezza di due bambini che non diventeranno grandi, le lacrime di chi li ama e sopravviverà, fino alla fine, tendendo una mano verso il buio, dove prima ne aveva scorto le sagome.
Sull’altro braccio mettiamo la cronaca fin qui disponibile. Sappiamo che il Gup di Ragusa ha condannato a nove anni di carcere Rosario Greco che l’11 luglio dell’anno scorso, alla guida del suo Suv, secondo le accuse, ha travolto e ucciso, a Vittoria, i due cuginetti Alessio e Simone D’Alessio, mentre giocavano.
Sappiamo che l’imputato era accusato di omicidio stradale plurimo aggravato dall’alterazione psicofisica dovuta all’utilizzo di sostanze alcoliche e stupefacenti. Greco, per via del rito abbreviato, ha potuto contare su una riduzione della pena.
Una premessa necessaria: nessun dubbio sulla scrupolosità e professionalità di chi ha giudicato, applicando la ‘matematica dei codici’ disponibile, secondo la proporzione stabilita dalla legge.
Ma, se confrontiamo il dolore e la sentenza, a un capo e all’altro della bilancia, c’è qualcosa che ci impedisce di dire che ‘giustizia è stata fatta’ nella sua pienezza.
Quella giustizia che non è vendetta, né forca e che deve considerare le garanzie di tutti. Quella giustizia che, se non ripara, offre un minimo di senso al cordoglio delle vittime, affinché possano affermare: oggi è stato riconosciuto il peso del nostro strazio.
Perciò, si può comprendere la rabbia e lo sconcerto dei parenti davanti a una decisione sicuramente impeccabile nella trama del diritto, che lascia più di un sussulto a chi rimane, con il suo cuore in frantumi.
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