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LiveSicilia.it / Archivio / “Tutto su mio figlio”

“Tutto su mio figlio”

Nel 2009 "S" intervistò in esclusiva Santino Di Matteo. Ripubblichiamo quell'articolo.

mafia
di Roberto Puglisi e Junio Tumbarello
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C’è un uomo sotto il sole, in una piazza, a novembre inoltrato. Si avvicina. Sorride. Saluta. Ha mani belle, curate, con le unghie corte. Sono mani che hanno ammazzato.
“Qui dietro cucinano un ottimo pesce”. Quattro passi. Una tovaglia quadrettata. Un registratore. L’uomo accosta le labbra al microfono: “Mi chiamo Mario Santo Di Matteo”. Suo figlio, Giuseppe, fu rapito a undici anni e ucciso a tredici, quando “Santino” cominciò a collaborare con la giustizia. Giuseppe è rimasto per sempre fissato in un’immagine, un salto con il cavallo oltre un ostacolo. I suoi carnefici lo prelevarono al maneggio. Lo tennero sotto chiave per lunghi giorni che diventarono anni. Lo uccisero e lo sciolsero nell’acido. Santino parla di suo figlio, si tormenta le dita, le stropiccia. Le increspa e le torce al nome di Giovanni Brusca, il capo dei boia. La pasta al pesce si raffredda tra una domanda e l’altra: “Chiacchiero con voi perché sono in difficoltà. Perché ogni volta che si ricorda Giuseppe, si dimentica il mio dolore di padre, perché sono state dette cose ingiuste”. C’è ancora un impasto di sole e allegria in piazza. Ma un’ombra si allunga sulla tovaglia bianca e rossa, a quadretti. Frasi e sospiri, a poco a poco, riempiono il registratore e il vicoletto che dà sul ristorante. Qui sono trascritti senza filtri per mantenerne l’immediatezza.
Signor Di Matteo, vorremmo cominciare da un particolare che la riguarda intimamente. Qual è il ricordo più bello che ha di suo figlio Giuseppe?
“Il giorno della sua nascita. Penso che per un padre il giorno più bello sia quello in cui nasce il proprio figlio. Per me quello è il ricordo più bello, ma poi anche tutto il resto fino ad arrivare… alla fine. Per me ogni giorno che è rimasto in terra è stato bello, per me e per tutta la mia famiglia”.
Che bambino era Giuseppe?
“Era vivace, sveglio e intelligentissimo”.
Cosa avrebbe voluto fare da grande?
“Il veterinario, perché amava gli animali. Tutti gli animali, le vacche, i cani, i cavalli. Tant’è vero che andava a equitazione, partecipava alle gare di salto agli ostacoli. Per l’età, aveva già bruciato le tappe, era arrivato agli interregionali e aveva vinto qualche premio”.
Lei pensa che suo figlio avrebbe avuto una vita diversa dalla sua?
“Sì, ne sono certo”.
Rammenta, a parte il giorno della nascita, un evento, una frase, un momento?
“Era innamorato degli animali, questo mi è rimasto impresso. Ci parlava. Io ho sempre pensato che chi ama gli animali è un buono e Giuseppe era così. Già a nove anni mungeva le vacche. Disse a me e a mio padre che da grande avrebbe voluto fare il veterinario. E mio padre rispondeva che avrebbe potuto metterci anche una mano sola e noi gliene avremmo date cento di mani, pur di aiutarlo in questo suo sogno”.
Giuseppe conosceva il suo vero mestiere, Santino?
“Mio figlio sapeva che lavoravo in Comune e in campagna. Che andavo a badare alle mucche e talvolta viaggiavo per lavoro. Lui stesso, già a cinque anni guidava la macchina. Avevamo un fuoristrada, una campagnola, e lui la portava sempre e l’ha distrutta per quanto l’ha usata. Era un bambino attivissimo, frequentava sempre persone più grandi di lui”.
C’è quella foto che ritrae suo figlio, a cavallo. Un simbolo. Crede che sia l’immagine più adatta per conservarne la memoria?
“Era la sua passione. Quindi è giusto che rimanga quella foto. Ce ne sono altre, una, per esempio, in cui Giuseppe guarda le campagne, la terra e i vigneti, sempre vestito in tenuta da cavaliere”.
Ogni volta che si racconta dell’orribile delitto, si tralascia spesso di sottolineare il dolore di un padre. Questo le ha fatto male?
“Bene non mi fa. Ma vado avanti. Mi basta vedere mio figlio in foto per provare una forte sensazione. Non so se definirla una specie di carica. Non se è il Signore che mi assiste. Probabilmente ho resistito solo perché sono forte e Dio mi ha assistito. Magari un altro padre sarebbe morto di crepacuore. Forse è il Signore che mi dà la forza di resistere per vedere marcire i suoi carnefici in carcere. La carica mi verrà dal cielo, e io non faccio altro che guardarlo, il cielo. Chiedo sempre al Padreterno di farmi vedere qualcosa”.
Parla con Giuseppe?
“Sì, e lo sogno spesso. Adesso dico una cosa che non ho detto mai a nessuno. Una notte – avevo da poco fatto una richiesta per parlare con il procuratore Grasso – il bambino mi è venuto in sogno e mi ha detto che quando avrei visto Grasso, avrei dovuto salutarlo per lui e dargli anche un bacio da parte sua. Giuseppe mi raccomandò in sogno di dire a Grasso che sopra la sua testa c’era lui, per proteggerlo. Quando ad agosto ho visto il procuratore, non ho avuto il coraggio di dirglielo. Ci avevo riflettuto e mi ero preparato un discorso per raccontare a Grasso il sogno e le parole di Giuseppe, ma ho preferito non dire niente. Anche adesso che ne parlo, sono emozionato e, considerato il mio carattere, non tutto mi tocca così da vicino.”
Prova più rabbia o dolore?
“Sicuramente dolore, rabbia fino a un certo punto. La rabbia svanisce, il dolore no. All’inizio c’era più rabbia. Ora mi è rimasto solo il dolore. La rabbia mi è venuta quando ho incontrato Brusca. Penso che qualunque padre davanti all’assassino di suo figlio impazzirebbe di rabbia”.
C’è qualcosa che vorrebbe dire a Giovanni Brusca?
“Vorrei chiedergli cosa prova, quando sta a casa con suo figlio, perché Brusca sta a casa con suo figlio. Io l’ho incontrato il figlio di Brusca, con sua madre. Li ho incontrati con l’altro mio figlio, all’aeroporto. Io neanche me ne ero accorto, è stato lui a farmeli vedere. È stato lui a dirmi: ‘Papà guarda chi c’è… la moglie di Brusca…’. E sono stato io a dirgli di non azzardarsi a toccarli. Mai. Sa, è pur sempre il fratello di Giuseppe ed era ancora minorenne. Gli ho detto di non pensare nemmeno di fare qualcosa, perché in quel caso ci saremmo abbassati al loro livello. Ci fosse stato il padre non so come avrei reagito. Come si dice occhio per occhio, dente per dente. Certo, non si può pareggiare una cosa del genere, però… Chiunque si sentirebbe ribollire il sangue, incontrando l’assassino del proprio figlio.”
Pensa che Brusca si sia pentito di quello che ha fatto?
“Ma che dice!? Quello lì lasciatelo perdere. Lui non si è pentito, mai! Lui neanche davanti al Signore si può pentire, perché il Signore stesso si rifiuta. Il Padreterno gli risponderebbe che lui non è cosa o persona da assolvere”.
Quindi, neanche il perdono umano è concepibile?
“Da parte mia no. Forse qualche altra persona potrebbe riuscirci, ma io no. Se avesse ammazzato un adulto forse sarebbe stato diverso, ma un bambino innocente, che non c’entrava niente con noi… No, no!”.
Poco fa, mentre chiacchieravamo a registratore spento, lei diceva che Totò Riina, Brusca, i Corleonesi hanno distrutto Cosa nostra. Che intendeva?
“Hanno distrutto trecento anni di storia. Se non ci fossero stati questi, tutto sarebbe ancora come prima. Non ci sarebbero state le stragi, né la mafia se la sarebbe presa con lo Stato. Anzi avrebbero convissuto. Una volta era normale vedere il maresciallo con il rappresentante del paese. E se ci fosse stato uno a rompere le scatole, ci avrebbe pensato o l’uno o l’altro. Magari uno rubava in una casa e si decideva chi l’avrebbe sistemato, chi avrebbe dovuto fargli riprendere la giusta via. Ma queste cose succedevano troppo tempo fa”.
A prescindere da quello che lei sostiene e che ognuno può valutare, crede che, all’interno dell’organizzazione mafiosa, oggi, ci sia del risentimento verso Totò Riina?
“Questa è la pura e santa verità. Riina ha distrutto la mafia, tutti quelli che non avrebbero voluto la guerra e che ci andavano calmi con omicidi e sangue. Nessuno desiderava che si arrivasse a questo. E così Riina ha ammazzato quelli che non volevano la guerra, come Stefano Bontade, Inzerillo, Mimmo Teresi, Calderone a Catania. Voleva uccidere Badalamenti e non ci è riuscito. Non sapete che elenco potrei nominarvi delle persone della mafia che lui ha fatto uccidere. E tutto questo, facendo tragedie, non facendo le cose giuste”.
Anche a lei sono stati addebitati numerosi fatti di sangue. Santino Di Matteo ha rivisto criticamente le sue azioni, oppure no?
“Io purtroppo non avrei potuto fare altro. Ero in quella situazione. C’era la lotta all’interno di Cosa nostra. Era una guerra, e tra la mia pelle e la loro, meglio la loro. Non c’era scelta: o la mia vita o la loro. Se mi fossi rifiutato di uccidere, sarei morto io. E poi, parliamoci chiaro, io non ho nessuno sulla mia coscienza. Io non ho mai deciso di togliere la vita a qualcuno, mi è stato sempre ordinato. Dovevo solo obbedire e non avevo scelta”.
Lei teneva presente un cosiddetto codice d’onore?
“Certo. Finché ero là dentro, sì. Se tutti avessero rispettato quel codice d’onore, tutto questo non ci sarebbe adesso. All’inizio ti dicono che è così, che c’è un codice, poi alla fine, quando sei dentro, ti rendi conto che è tutto diverso, anzi all’inverso”.
Oggi come sta Santino Di Matteo?
“Non sto bene. Perché da un lato devo continuare a fare quello che è giusto fare. Dall’altro sono stanco, non vorrei più”.
Cioè, lei sta continuando a collaborare?
“Sì. Ho fatto verbali fino a pochi giorni fa. Non mesi. Giorni”.
In privato, ci diceva che si sente abbandonato dalle istituzioni.
“Un po’ sì. Come faccio a non spiegare come stanno i fatti?”.
Vorrebbe tirare una linea sul passato e ricominciare? Dire quello che ha da dire ed essere lasciato in pace?
“Sì, quello sì”.
Se lei potesse rivivere la sua vita, rifarebbe le scelte che ha fatto?
“No, vorrei un vita diversa. Chiunque al mondo dovrebbe poter nascere due volte e forse neanche basterebbe per le cose giuste”.
Santino Di Matteo, se potesse rinascere, cosa vorrebbe diventare da grande?
“Farei lo stesso lavoro che avrebbe voluto fare mio figlio, aiuterei gli animali. Perché è meglio avere a che fare con gli animali che con le persone”.
Sua moglie Franca ha detto che ha vinto Giuseppe, che è stato lui a sconfiggere la mafia.
“Questo è vero. Loro lo sanno. Fanno finta di non saperlo. Questa è la verità e la verità non possono mangiarsela. La storia è andata così per Giuseppe Di Matteo. Non facciano finta di non saperla, perché l’inizio della fine è partito proprio grazie a Giuseppe. Come hanno saputo chi c’era dietro la strage di Capaci? Grazie a me e a mio figlio, se non ci fossi stato io, avrebbero fatto tutti i buchi nell’acqua. Sarebbe continuata la mattanza di persone perbene”.
Diceva che ha cominciato a collaborare proprio per evitare ulteriori spargimenti di sangue.
“Sì, c’era una dottoressa, la direttrice del carcere di Termini Imerese. Prima che io iniziassi a collaborare, nel 1993, ebbi dei colloqui investigativi. Mi chiedevano di collaborare per evitare la mattanza. Ancora non sapevo come si stava da questa parte, sapevo solo come si stava dall’altra. Poi quando capii bene la situazione, decisi di aiutare lo Stato, con l’intenzione di salvare tutti quelli che avrei potuto. Perciò avvertii subito del pericolo che stava correndo la direttrice del carcere di Termini. Ricordo che la chiamarono la stessa sera e la fecero andare via perché volevano ammazzarla, perché lì c’era il 41 bis e non stava bene all’organizzazione mafiosa. Quello che rompeva di più i coglioni per questa cosa era Benedetto Capizzi (boss di Villagrazia, ndr). Quest’altro nella sua vita non ha fatto altro che tragedie. Lui è stato uno di quelli che hanno partecipato all’assassinio di mio figlio”.
Lei, dunque, ha saltato il fosso per questo motivo.
“Sì, per aiutare lo Stato. Però adesso lo Stato non mi vuole aiutare. Io l’ho ho aiutato fino ad oggi”.
Santino Di Matteo è una persona di fede?
“Lo sono sempre stato. Andavo a messa la domenica”.
Quando è stato chiaro che suo figlio era stato preso per impedirle di parlare, ha pensato per un attimo di interrompere la sua collaborazione con la giustizia, oppure ha stabilito subito di andare avanti?
“All’inizio non avevo capito cosa era successo. Mi chiedevo come e perché avessero preso mio figlio, quando loro stessi avevano a casa dei parenti collaboratori di giustizia. Quando Giuseppe è scomparso, ho pensato a mio padre, a un suo piano per nascondere il bambino e metterlo da parte. Una mossa precauzionale. Quando ho capito che il rapimento era vero, ho capito pure che non c’era niente da fare. L’unica speranza era quella di andare contro di loro e continuare a parlare. Dalle loro mani, in casi del genere, non ho mai visto uscire vivo nessuno. Ho pensato anche che ci potevano andare di mezzo altre persone della mia famiglia”.
Rivedrà suo, figlio un giorno?
“Sì. Ci rincontreremo”.

Pubblicato il 12 Giugno 2014, 13:54
2 Commenti Condividi
Commenti
  1. Cristian 5 anni fa

    Bel pentimento va! Io ho solo eseguito ordini? Non ho nessuno sulla mia coscienza… Mah

    Rispondi
  2. Verusca 5 anni fa

    Che tristezza povero papà ..

    Rispondi

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