PALERMO – Di loro Totò Riina voleva che sulla terra non restasse neppure il seme. Gli Inzerillo andavano sterminati tutti, uno dopo l’altro. Fu una strage. Piombo e lupara bianca: alla fine di morti se ne contarono ventuno. A cominciare dal potente boss di Passo di Rigano, Salvatore Inzerillo che tutti chiamavano Totuccio.
Allo sterminio si pose fine con la grande fuga. Gli scappati ripararono in America. Erano gli anni Ottanta. Un ventennio dopo i sopravvissuti provarono a rientrare in Sicilia in punta di piedi. Cosa nostra non era più la stessa. Totò Riina non era più in circolazione e Bernardo Provenzano aveva una linea più morbida. Si rischiò una nuova guerra. Poi, i padrini di allora finirono in carcere e le armi riposte nel cassetto.
Tutto inizia nell’aprile del 1981, quando i corleonesi massacrano Stefano Bontate. È chiaro a tutti che nulla sarà più come prima. I paesani si vogliono prendere Palermo. Totuccio Inzerillo non può non avere fiutato il pericolo, lui che con Bontate si è inventato il business dell’eroina. Montagne di droga e milioni di dollari. Inzerillo si sente forte del potere dei soldi. Ha un grande affare per le mani con il capo dei capi. Ci sono 50 chili di roba pronti per essere venduti e crede che questo lo metta al riparo dal piombo. Si è fatto male i conti. I killer attendono che scenda dall’appartamento di via Brunelleschi dove si è intrattenuto con una donna. Non fa in tempo a salire sulla sua Alfetta blindata. I kalashnikov lo sfigurano.
La caccia all’uomo si sposta anche in America dove vivono alcuni Inzerillo. Il 14 gennaio del 1982 un funzionario di Polizia del New Jersey riceve una telefonata anonima. Deve andare all’hotel Hilton di Mount Laurel. C’è una bomba in una macchina. La macchina c’è davvero ed è ricoperta di neve. Sotto il sedile, al fianco del guidatore, c’è una pistola. Nel portabagagli, il cadavere congelato di Pietro Inzerillo jr, fratello di Salvatore e nipote di Antonino Inzerillo. Anche quest’ultimo vive in America. Torna a Palermo. Si guarda attorno per cercare di serrare i ranghi.
La commissione provinciale di Cosa nostra si riunisce in un villino di Trappeto, un paesino non lontano da Palermo che si riempie quando la gente va al mare. La testa di Antonino Inzerillo in cambio della grazia per gli scappati in America. Così viene deciso. Il 2 febbraio del 1982 la moglie di Inzerillo, Anna Gambino, denuncia alla polizia di non avere più notizie del marito. Si è allontanato quattro mesi prima dalla loro casa di Conrow Road, Delran, New Jersey.
Trent’anni dopo, nell’ottobre del 2010, un uomo ha un malore per strada, a Palermo. Un’emorragia all’occhio. Lo soccorrono alcuni finanzieri. Quell’uomo è Rosario Naimo, latitante dal 1995 perché condannato a 19 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Naimo si pente e racconta i retroscena dell’omicidio di Antonino Inzerillo. Sarebbe stato massacrato in una salumeria di Brooklyn grazie alla complicità dello zio Tommaso. Anche quest’ultimo doveva essere eliminato. Fu graziato perché attirò in trappola il nipote. Guerra conclusa. Gli Inzerillo non potranno più mettere piede in Sicilia. Naimo farà da garante.
Ed, invece, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila i sopravvissuti cominciano a rientrare. Per primo Francesco Inzerillo, ’u truttaturi, classe 1956, fratello di Salvatore. Solo che al suo arrivo gli piove addosso una nuova condanna. Poi, tocca ad un cugino omonimo, soprannominato u nivuru, pure lui poi di nuovo condannato. U tratturi è il primo a intuire che forse è meglio tornare in America. Lo dice ai nipoti Giovanni e Giuseppe, durante un colloquio intercettato in carcere. Entrambi sono orfani di padre. Figli di Totuccio e di Santo, un altro fratello ammazzato negli anni Ottanta. “Qua c’è solo da andare via, e basta”, suggerisce lo zio Franco.
Sono gli anni che precedono gli arresti di Nino Rotolo, boss di Pagliarelli, e Provenzano. Gli anni in cui Rotolo è una furia: “Questi Inzerillo erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni… Se ne devono andare. Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti”.
Si rischia la guerra, perché gli scappati trovano sponda in un alleato potente. È Salvatore Lo Piccolo, il barone di San Lorenzo. Rotolo non ci sta, ma non riesce a tirare dalla sua parte Provenzano, che prende tempo e cerca di mediare: “Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno – scrive nelle sue lettere – a decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo”. La verità è che i soldi degli Inzerillo fanno gola. Soldi a palate accumulati grazie agli affari con le famiglie americane Gambino e i Calì. Per toccare con mano cosa accade oltreoceano, su volere di Provenzano, partono Nicola Mandalà, del clan bagherese che protegge la latitanza del padrino, e Gianni Nicchi, enfant prodige della mafia palermitana e figlioccio di Rotolo (sarebbe stato arrestato anni dopo dopo una breve latitanza).
Di Inzerillo si torna a parlare nel 2008 quando in manette finisce uno dei figli di Totuccio, Giovanni, coinvolto in una mega inchiesta per traffico internazionale di droga. È andato peggio al fratello Giuseppe. Era un ragazzino, neppure sedicenne, quando fu ammazzato. Aveva osato dire in pubblico che avrebbe vendicato il padre. Prima gli tagliarono la mano e poi lo uccisero. L’ultimo degli Inzerillo – un unico ceppo ha generato mille famiglie – che la cronaca fa rimbalzare in prima pagina è Matteo, lontano cugino di Totuccio Inzerillo. Insospettabile dipendente dell’Amat, i carabinieri lo piazzano ai vertici di Cosa nostra. Ancora una volta del clan di Passo di Rigano, feudo degli Inzerillo Processato in primo grado viene assolto. Nel 2015, la Corte d’appello, ribalta il verdetto. E da allora è di nuovo in cella. In silenzio.