PALERMO- “Non so come mi ritrovo nella stanza dove, da pochi minuti, c’è il corpo del dottore Falcone. A un certo punto ho la sensazione di essere solo, ma, accanto a me, avverto nella penombra un respiro: è il dottore Borsellino. E poi…”.
La memoria vera è un suono intellegibile per persone vere. Se c’eri, mentre si combatteva la guerra, se hai visto i grandi uomini cadere, se sei sopravvissuto, non sarai mai uno che sfila con la bandierina del colore che conviene negli anniversari. Perché hai rispetto dei tuoi sentimenti e del dolore.
Vincenzo Mineo, che gli amici chiamano Enzo, c’era mentre a Palermo c’era la guerra. C’era, in quella estate del ’92, quando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino diventarono eroi pure per quelli che li avevano avversati. Durante il maxi-processo era direttore dell’aula bunker. I suoi sono ricordi innocenti. E cominciano da lontano. Ecco il racconto.
“Nel Settantanove, vinco una borsa di studio presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Superato il concorso, posso restare a Roma, ma scelgo Palermo. Comincia la mia carriera come funzionario a Palazzo di giustizia”.
Un giorno, squilla il telefono. “Nella terribile estate del 1985, che vide cadere Beppe Montana e Ninni Cassarà, mi convoca il Presidente del Tribunale, Franco Romano, un gentiluomo del quale conservo un ricordo particolarmente affettuoso. Mi propone di occuparmi del maxiprocesso, per il quale è ormai prossima la conclusione dell’istruttoria. Inoltre c’è l’aula bunker in costruzione e occorre un funzionario che si occupi pure di questo, anche per organizzare l’avvio del più grande dibattimento penale mai celebrato in Italia. A quell’invito rispondo subito di sì, evitando di pensarci troppo. Saprò dopo che altri hanno trovato le scuse più varie per sottrarsi. Ma quella sfida, dietro la quale c’è il lavoro pazzesco svolto dal pool antimafia dell’Ufficio Istruzione, mi attrae. Il timore di tutti, dentro il Tribunale, è che un processo ‘monstre’ come quello risulti ingestibile sia sotto il profilo della giurisdizione che sotto quello organizzativo-gestionale”.
“Arriva l’otto novembre 1985, il giorno del deposito dell’ordinanza di rinvio a giudizio: quarantatré volumi per 475 imputati, di cui oltre trecento detenuti. Il gotha di Cosa nostra e non solo. Mi trasferisco nella stanza della segreteria del dottore Falcone, per stare vicino alle centinaia di faldoni con i quali devo convivere. Inizia anche un rapporto più stretto con lui, con il dottore Borsellino, con il dottore Di Lello e il dottore Guarnotta. Certo, si capisce che Falcone e Borsellino hanno addosso il maggiore carico di quel lavoro immenso. Oltre alla professionalità, quello che sempre mi ha colpito è l’umanità, più evidente in Paolo Borsellino, più nascosta in Giovanni Falcone, forse rivelata solo alle persone di cui si fida. Non molte e a ragione. E la schiettezza: il fare corrispondere le parole, poche, con ciò che si è. Senza darsi troppa importanza. E avrebbero potuto. C’era una grande speranza in quegli anni formidabili, credevamo davvero di potere, ognuno per la sua parte, piccola o grande, imprimere una svolta. Anche nel cambiare un po’ questa nostra terra così complicata”.
Arriva il 23 maggio del 1992. Si comincia a diffondere la notizia di un attentato in autostrada. Una bomba ha ucciso ‘una nota personalità’ e la sua scorta. A poco a poco i contorni si schiariscono. Si tratta di Giovanni Falcone, di sua moglie, Francesca Morvillo e dei ragazzi che li proteggono: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
“Mi chiamano dal posto di polizia dell’aula bunker, mi precipito all’ospedale Civico, c’è già la folla che si raduna in questi casi. Riusciamo a entrare nella stanza dove hanno appena portato il corpo di Falcone. La mia memoria procede per flash. Ricordo il procuratore di Palermo, il dottore Lo Voi, allora giovane magistrato, seduto su un gradino con la testa tra le mani. A un certo punto ho quella sensazione di essere rimasto solo. Ma avverto che accanto a me c’è qualcuno. Mi volto. Nella penombra, scorgo Paolo Borsellino. Ha il viso bianchissimo, stanco, respira quasi a fatica. Non parla, non dice niente”.
“Ci saremmo ritrovati, poi, alla camera ardente del dottore Falcone, dopo averne portato la bara all’ingresso del Palazzo di giustizia. E altre volte, in quei cinquantasette giorni. Una volta, all’ingresso del Palazzo, mi disse : ‘Sto cercando di farmi tornare la voglia di lavorare, ma è veramente difficile’. Lui che era un grandissimo lavoratore. Un’altra volta lo vidi veramente arrabbiato per le dichiarazioni di un ministro che lo aveva indicato come il prossimo procuratore nazionale antimafia. L’esempio che ci hanno lasciato lo porto sempre con me. Ed evito di parlarne. Vedo in giro troppi amici del giorno dopo”. Enzo Mineo chiude con un sospiro.
Il diciannove luglio si compie il destino di un altro eroe che non voleva essere tale. Paolo Borsellino muore ammazzato dal tritolo in via D’Amelio insieme alla sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Con il suo amico Giovanni si erano incontrati e salutati per sempre, qualche settimana prima, in una stanza d’ospedale.