Di tutte le anime in pena fra le bare accatastate dei Rotoli ci rimarrà eternamente impresso quel padre che non può piangere suo figlio. L’abbiamo incontrato qualche giorno fa, all’inizio della nostra inchiesta, mentre ci aggiravamo sotto i tendoni che scoppiano. “Non rilascio interviste”. Poi, il ritorno: “Mi scusi, non volevo essere scortese. Vede? Lì c’è mio figlio. E non posso piangerlo”. Un padre ancora giovane che indica una collinetta multistrato. Ha ragione quel papà: per piangere qualcuno è necessario che ci siano le condizioni per il decoro del lutto. Hai il cuore squarciato, magari sei il papà di un figlio che si presume, anch’esso, giovane ed è successo da poco tempo. Quel dolore non passerà mai. Sei ancora nella prima fase dell’ustione che consuma il cuore, tra la pena e lo sbigottimento. E cosa devi sopportare? Che il tuo ragazzo sia tra i mille palermitani del cimitero senza sepoltura, addossato ad altri. In mezzo a un puzzo di decomposizione che buca la mascherina. Questo è l’inferno.
Siamo tornati ieri mattina ai Rotoli e ancora ritorneremo, fino a quando l’orrore non sarà almeno un po’ sforbiciato e li abbiamo visti i palermitani vivi che cercano i palermitani morti. Quando le bare sono in alto non restano che due modi per deporre un fiore. C’è chi si appoggia sui feretri sottostanti, cercando di non calpestarli, per innalzarsi. C’è chi, invece, lancia un mazzo a pallonetto, sperando che si deponga sul defunto cercato. Come si comportano i cittadini in transito che, secondo diritto di cittadinanza, appunto, dovrebbero friggere di indignazione? Con l’impotenza rassegnata di chi sa che tanto è inutile perfino protestare. Qualcuno allarga le braccia. Qualcuno bofonchia il classico ‘muah’, alzando gli occhi al cielo. Ma cosa puoi fare se il peggio è già accaduto, se lo scempio è sotto i nostri occhi, se, nonostante le proteste, tutto continua allo stesso modo? Cosa fai al cospetto di un’amministrazione che, sui Rotoli, ha profuso parole, promesse, orizzonti che sono rimasti (è il caso di dirlo) lettera morta?
Allora non resta che farsi un giro, per respirare un’aria meno ammorbata, nello spazio affollatissimo del camposanto. E’ un venerdì in cui il rito della visita ai defunti si compie nel consueto e dolce smarrimento. C’è anche una specie di educazione sentimentale. I bambini vengono accompagnati dai nonni, prendono confidenza con l’aldilà raccontato, con le prime esperienze del distacco. Il nonno o la nonna li guardano con un sorriso invitante dalla lapide, punteggiato da una scritta consolatoria. Sono cose scolpite dai vivi, ma è bello pensare che ci sia, da qualche parte, un ponte, un linguaggio, per non perdersi.
Più in là, all’ingresso, c’è il deposito che trabocca. Scattiamo l’ennesima foto da una porta socchiusa. Forse è questa normalità la nostra condanna più dura. La capacità di abituarci a tutto e di non stupirci più di nulla. Al massimo mormoriamo il nostro ‘muah’ mezzo costernato e mezzo compiaciuto, perché sempre ricaviamo una triste conferma dell’immobilità dallo sfascio. Ma finché un padre non potrà piangere un proprio figlio come si deve, finché il dolore non verrà riconsegnato al suo corso, Palermo non sarà mai capitale di niente. Se non dell’orrore.