Sono una cinquantina. Nel seminterrato degli uffici dell’assessorato regionale all’Istruzione, in via Imperatore Federico. E il loro futuro, da stasera, somiglia davvero a quegli uffici. A quei corridoi. Contorti. Un po’ bui. Un po’ opachi.
È esplosa la rabbia dei dipendenti del Cefop. Rabbia covata dopo mesi di mancate retribuzioni. Mesi senza stipendio, insomma. Per chi ha famiglia e mutui. Prestiti e bollette alle quali “rispondere”. In serata la notizia ufficiale del mancato inserimento nel Prof. L’unico tra gli enti. E soprattutto la voce della modifica a una delibera. Un fatto tecnico. Ma semplicissimo: per loro si avvicina (attraverso il lenitivo temporaneo e, a detta loro insufficiente, del transito attraverso il Fondo di garanzia) lo spettro del licenziamento.
Per loro. Che non sono pochi. Più di mille. Voluti in gran parte dalla politica (che spesso e volentieri gestisce in maniera diretta o indiretta gli enti e comunque ha amministrato finora il mondo della Formazione). Quella politica, oggi non li vuole più. Dopo averli masticati come un chewing-gum, più gradito nelle vicinanze di qualche elezione.
La rabbia è esplosa, quindi, portando alla rottura del cordone della polizia e dei carabinieri, ancora in sosta, fino alle nove di sera, su via Imperatore Federico. Alcuni in assetto anti-sommossa. Hanno rotto quel cordone, i dipendenti del Cefop. Qualcuno (una donna) sembra si sia fatta male a un piede. E hanno preso possesso di quella stanza. Di quei corridoi. Di quegli uffici che da stasera somigliano un po’ al loro presente, al loro futuro.
“Io sono entrato nel mondo della Formazione – spiega uno di loro – all’età di 27 anni. Sono un formatore altamente specializzato. Oggi, a 48 anni, sono andato a vivere da mia suocera. Che dovevo fare?”. Che doveva fare. Da dieci mesi non vede lo stipendio. Come i tanti, presenti lì dentro. “Oggi – aggiunge un collega – se mi dicono che il mio ente è morto, è come se mi dessero una pistola in mano per usarla contro me stesso”.
E la preoccupazione non è tale da seppellire l’onestà, negli occhi di tanti di loro: “Sappiamo – ammette un altro dipendente – che non siamo entrati per concorso. Ma quando siamo entrati nell’Ente, ci hanno chiesto di credere in questo progetto. E adesso? Il problema non è tanto lavorativo quanto, ormai, un problema morale e sociale”.
“Qui tra noi – aggiunge un altro – c’è gente che ha lasciato il proprio lavoro di falegname, di barbiere, per credere in questo sogno della Formazione professionale. E si è fatta fottere”.
A rendere ancora più confusa la situazione, le spaccature nel sindacato: “Oggi – denuncia un lavoratore – il mondo della Formazione non è in grado di presentare una proposta unitaria. Ma a pagare siamo solo noi”.
“L’introduzione del parametro unico – spiegano – porterà a esuberi anche in altri enti. Quel Fondo di garanzia che dovrebbe garantirci una retribuzione per qualche anno, dovrà servire anche per loro. E ci risulta che in quel Fondo, finora, i soldi siano pochi, pochissimi”.
“Siamo stanchi – dice una signora – di essere considerati dei parassiti. Se la Formazione non funziona bene, la colpa sarebbe di noi lavoratori o di chi ha gestito il lavoro in questo mondo?”.
Lì, tra i corridoi di una via Imperatore Federico che sonnecchia, la categoria dei “lavoratori” si moltiplica in facce diverse. Uomini, donne di ogni età. Qualcuno è già “imbiancato”. Forse sarà tra quelli “incentivati” al prepensionamento. Ci sono alcuni ragazzi. Per loro, forse non c’è più un ente. Per loro, lo leggi negli occhi, passare in un Fondo significa solo andare a fondo.