(rp) Ci sono storie sepolte sulla strada di Capaci. La sera del giorno in cui fu assassinato, Giovanni Falcone avrebbe consumato una porzione di gateau di riso. Dopo l’esplosione, Gaspare Cervello – un uomo della scorta – col braccio rotto e i vestiti laceri, dimenticò il dolore acuto e si mise, con la pistola ormai inservibile, a guardia della macchina dissolta del giudice. Vide gli occhi di Falcone ancora vivi, in mezzo alla lamiera scardinata e rovente. Solo dopo un’ora lo convinsero a salire sull’ambulanza. Angelo, un altro coraggioso custode del magistrato e di sua moglie Francesca, ogni volta che torna a Palermo frequenta gli stessi luoghi di ieri. Il dolore è un macigno nello stagno. Lascia cerchi concentrici all’infinito.
Giovanni Falcone lo portarono al Civico che era quasi morto. Il primo medico che lo accolse svenne. Gli altri due ricucirono una ferita a stella sulla fronte. Per rispetto. Il corpo, all’apparenza non devastato, era stato massacrato all’interno. C’è un legame con lo spirito, con l’anima del giudice Falcone arroventata da diecimila ingiustizie. E lui, fuori, sapeva sorridere. A Francesca aveva detto che a Roma sarebbero stati felici, che avrebbero cominciato una vita nuova. Giovanni Falcone, “un uomo a cui hanno tolto il tempo”, disse Giuseppe Di Lello. Straziato con Francesca e coloro che, per brevità, definiamo “gli uomini della scorta”. Si chiamavano Rocco, Antonio, Vito.