La voce di Rosario si fa strada a stento tra gli sbuffi dei motori. “Faccio il benzinaio”, dice, chiedendo a gran voce “di scrivere il mio nome. Lo deve scrivere che sono ridotto in queste condizioni”. Rosario è uno dei mille dipendenti del Cefop. Lo è. O lo era. Perché la condizione è quello di un “uomo morto che cammina”, con la speranza di una “cassa integrazione in deroga” della quale esiste solo un annuncio. Un foglio con alcuni nominativi. Ma ancora, nemmeno un euro messo sul piatto dal governo nazionale.
“Lavoro dieci ore al giorno per quindici euro”. Questo, il destino di Rosario, quattordici mesi di stipendio arretrato. Come lui, tanti. A cercare altrove un reddito una volta garantito da un contratto a tempo indeterminato. Ora, di indeterminata c’è solo l’attesa di qualcosa che non si conosce ancora.
“Io lavo i piatti in un ristorante di Mondello”, dice Franco. “Io faccio il vigilante nelle fiere” racconta Mario. Tutti nomi di fantasia, ovviamente. Perché pronunciare il proprio nome, paradossalmente, per molti è come mettere in gioco la propria dignità. “Non siamo abituati a queste condizioni”, dicono alcuni dei mille “sputati fuori” da un sistema che a lungo ha vissuto su clientele, sponsor politici e presenza dei sindacati. E che oggi si affida alle parole chiave “cassa integrazione in deroga”, “fondo di garanzia”, “mobilità”. Nulla che somigli alla parola “lavoro”.
E ciascuno, questo buio lungo più di un anno, lo attraversa a modo suo. C’è chi ammette “di essersi rivolto a un malavitoso. Solo i mafiosi, ormai, ci possono dare un lavoro”. Come dire, un autogol siciliano. Un ritorno a un passato che andrebbe cancellato.
Tra i dipendenti c’è anche chi aveva puntato sul Cefop tutte le fiches del proprio futuro. Marito e moglie, entrambi impiegati nell’ente. Ventotto mesi complessivi senza stipendio. E tre figli. Ai quali il destino è cambiato, insieme ai buchi del Cefop, alle riforme promesse e paventate, alle raccomandazioni che non salvano quando la barca affonda. Due dei figli hanno dovuto rinunciare agli studi universitari. Uno di loro fa lo scaricatore di porto ai cantieri navali. Dove non vuole più andare: non è il suo posto e qualcuno, a lavoro, glielo fa notare con cinica crudeltà. Lui però deve portare qualcosa a casa. Anche perché il fratellino ha bisogno degli occhiali nuovi. Si sono rotti, qualche mese fa, e stanno insieme solo con lo scotch. “A fine mese, appena prendo lo stipendio ti compro gli occhiali nuovi” gli dice la mamma, ogni volta. Quel mese non è ancora finito.
Roberto, invece, ama i cavalli. Più di ogni cosa. O quasi. Non più di suo figlio che ha appena otto mesi ed è senza pannolini. “Un giorno – racconta una collega – ero con lui in macchina. Mi disse che andava in via Cordova (sede del Cefop, ndr) a pretendere uno stipendio. ‘Devono darmelo’, disse con decisione”. Altrimenti Roberto che ama i cavalli “ne avrebbe sgozzati due e avrebbe rivenduto la carne per ricavare qualcosa per il bimbo”.
Gianpaolo, invece, s’è sentito definire “una cosa inutile”. Lo ha fatto sua moglie, perché lui non porta a casa il pane. “Che uomo sei?” gli ha urlato in faccia, al culmine dell’ennesima lite domestica della quale l’uomo ha portato sulla pelle i segni per un po’. Ha provato a gettarsi dal terzo piano di via Cordova, Gianpaolo, qualche settimana fa. Nell’ennesima occupazione dell’assessorato che non ha ridato occupazione a nessuno.
Le storie di chi non ha uno stipendio, per forza, finiscono per rimbombare tra i muri delle case. Così come è successo, qualche giorno fa, all’ex operaio di Termini Imerese che ha ucciso la moglie e sparato alla figlia prima di togliersi la vita. “Noi siamo diversi? – dice Fabrizio Russo, che è anche un sindacalista dello Snals Confsal – Lombardo ha dato del mascalzone a Marchionne. Ma lui è da meno? Se succederà qualcosa, la responsabilità sarà anche sua, dell’assessore Centorrino, del dirigente Albert”.
Parole dettate dalla rabbia, ovviamente. “Se non avremo risposte – annuncia – siamo pronti a clamorose proteste. Cosa possono toglierci ormai?”.
Intanto qualcosa sembra nuoversi. Ma il moto, spesso, è solo apparente. Sono nati i “tavoli di crisi” alla Regione, una “commissione d’indagine” all’Ars, è partita un’istanza di fallimento di cui si saprà qualcosa a fine settembre.
Si saprà. Si vedrà. I dipendenti del Cefop vivono sospesi in un luogo fatto di promesse e timori: “Io non dormo più – racconta Rosa – da troppo tempo. Ci hanno tolto anche questo”. Rosa non dorme, la notte. Ma c’è anche chi, quelle ore, le trascorre in altro modo: Nino fa il parcheggiatore abusivo di fronte ai locali notturni. Luigi va “a pulire i cessi in una sala bingo”. Dove, per i dipendenti del Cefop tirano fuori solo il novanta. Il numero della paura.