L’immagine di Oscar Luigi Scalfaro, nell’immaginario collettivo, è legata a quelle tre parole scandite in diretta tv a reti unificate: “Non ci sto”. Era stato coinvolto, con l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, nello scandalo dei fondi neri al Sisde, il servizio segreto civile. Poi si scoprì che era una calunnia ma allora, siamo negli ultimi mesi del 1993, sembrava che l’architettura dello Stato stesse crollando sotto i colpi delle bombe della mafia e delle manette di “Mani Pulite”. Dopo tanti anni, il 15 dicembre 2010, Scalfaro è stato sentito dai magistrati palermitani che indagano sulla presunta trattativa Stato-Cosa nostra. Il suo nome, infatti, entra nella vicenda inerente la mancata proroga di centinaia di 41 bis a boss mafiosi. Memori di quel “non ci sto”, gli investigatori si attendevano un cono di luce dalla sua audizione ma, negli uffici del Senato, Francesco Messineo, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, dovranno mettere a verbale solo buchi di memoria. Ma, è doveroso premetterlo e sottolinearlo, Scalfaro è stato sentito all’età di 92 anni, riguardo avvenimenti risalenti a 17 anni prima.
Nicolò Amato, capo del Dap nella prima parte del 1993, è stato sentito dai magistrati palermitani e ha sostenuto che il suo avvicendamento fosse stato dettato dal capo della polizia, Vincenzo Parisi, in accordo proprio con Scalfaro e Giovanni Conso, allora Guardasigilli. A questi si aggiunge anche il monsignor Fabio Fabbri, segretario dell’ispettore dei cappellani carcerari, che ha raccontato come Scalfaro lo convocò al Quirinale preannunciandogli il siluramento di Amato. Anche Gaetano Gifuni, storico segretario del Capo dello Stato, ha rivelato che Amato fu rimosso “sostanzialmente nell’accordo tra il ministro Conso, il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente della Repubblica Scalfaro”. Poi c’è un atto in particolare che ha attirato l’attenzione dei magistrati e che riguarda l’uomo forte del Dap, l’ex magistrato Franco Di Maggio. Per diventare vice direttore, non avendo le qualifiche necessarie, è stato necessario un decreto di Scalfaro che lo nominava consigliere della Presidenza del Consiglio, parificandolo, così, ai dirigenti generali dello Stato”. Amato, il suo successore Adalberto Capriotti, e Di Maggio, sono i protagonisti della mancata revoca dei 41 bis, per gli inquirenti il “colpo di spugna” dello Stato di fronte alle bombe che esplodevano a Romano, Firenze e Milano.
Ma, a proposito dell’avvicendamento fra Amato e Capriotti , Scalfaro ha affermato di non saperne nulla. “Nessuno mi mise al corrente delle motivazioni che portarono a tale avvicendamento. Anzi, non ho alcun ricordo della persona del dottor Amato; non sono neppure in grado di affermare di averlo mai conosciuto. Voglio subito precisare che, più in generale, sia quando ero ministro della Repubblica Italiana che successivamente ricoprendo la carica di Presidente della Repubblica, nessuno mi ha mai messo al corrente né io ebbi, altrimenti notizie di alcun genere, su presunte ‘trattative’ tra lo Stato e la criminalità organizzata”. A questo aggiunge di non aver avuto mai “alcuna notizia su possibili divergenti opinioni di esponenti istituzionali e politici sull’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis”.
Scalfaro continua: “Avevo frequenti interlocuzioni con il prefetto Vincenzo Parisi, allora capo della polizia per motivi istituzionali. Parisi era un funzionario che stimavo profondamente per la sua professionalità. Posso dire con assoluta certezza che nulla ebbe mai a dirmi, durante il lungo periodo in cui abbiamo intrattenuto rapporti, circa una possibile ‘trattativa’ tra Stato e mafia, né al riguardo del 41 bis e di possibili connessioni tra l’applicazione di quel regime penitenziario e gli episodi stragisti del 1993”.
E conclude: “Nulla seppi, nel 1993, della mancata proroga di circa 300 provvedimenti di applicazione dell’art. 41 bis a carico di detenuti per reati di associazione mafiosa. Conseguentemente nulla posso dire in ordine ad eventuali connessioni tra tali mancate proroghe e l’esistenza di progetti più ampi di affievolimento del regime di detenzione nei confronti di detenuti mafiosi. Oggi, avendo recentemente appreso tale notizia dagli organi di stampa, posso soltanto supporre, pur non avendo nessuna conoscenza in merito, che quella decisione sia stata presa dal ministro Conso per ragioni di umanità nei confronti dei detenuti. Il ministro Conso è sempre stata persona di grande sensibilità umana ed è possibile che per tale ragione, consultandosi i suoi collaboratori abbia adottato quella decisione”.