13.30. Giudici in camera di consiglio. La sentenza intorno alle quattro di pomeriggio.
12.50. Ancora il Pg: “Nel processo di primo grado non si è voluto affrontare il nodo del patto politico-mafioso. Oggi non si giudica il cuffarismo e il metodo di occupare gli spazi di potere. Le raccomandazioni nel concorso per sei medici all’ospedale Villa Sofia sono state un piacere fatto al capomafia Guttadauro”.
12.48. ll Pg: “La gravità dei fatti di questo processo vanno al di la della condanna per favoreggiamento”. Il Pg cita i rapporti che Cuffaro avrebbe avuto, indirettamente e tramite Michele Aiello, con Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. “La candidatura di Domenico Miceli fu concordata con Totò Cuffaro e il capomafia di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro – dice il Pg – è la prova del patto politico-mafioso. La prova della sussistenza del reato di concorso esterno” .
12.25. L’aula è quella della seconda sezione della Corte d’appello, al primo piano del Palazzo di giustizia di Palermo. Un’aula ancora vuota. Fuori attendono i cronisti. L’inizio del processo a Totò Cuffaro era previsto per le undici e trenta. Non ci sarà Cuffaro che ha rinunciato a presenziare sin dalle prime udienze. I suoi legali, che lo hanno incontrato nei giorni scorsi, descrivono la sua “agitata” vigilia. L’ex governatore ha ribadito l’amarezza per un processo che definisce “ingiusto”. La notizia del verdetto dovrebbe apprenderla dalla tv accesa nella sua cella di Rebibbia. In ballo non c’è solo una richiesta di pena, 13 anni, piu pesante dei sette che Cuffaro sta già scontando, ma le condizioni del regime carcerario. In caso di condanna, da subito, potrebbe scattare l’alta sorveglianza per l’ex presidente. Meno socialità e fuori dalla cella solo durante l’ora d’aria, potrebbero essere le prime conseguenze. A meno che la corte presieduta da Biagio Insacco non dovesse ribadire il proscioglimento per ne bis in idem. Come in primo grado. Il processo è appena iniziato con la replica del procuratore generale Luigi Patronaggio.
E’ il giorno della sentenza. Totò Cuffaro oggi saprà se la condanna che sta scontando basterà o meno per saldare il conto con la giustizia. Una nuova attesa per l’ex governatore dopo quella che il 22 gennaio segnò la sua vita. Cuffaro fu condannato dalla Cassazione a sette anni per rivelazione di segreto istruttorio e favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. E si aprirono le porte del carcere. Oggi, da detenuto, attende la sentenza per concorso esterno in associazione mafiosa. Più pesante il reato, più pesante la richiesta di pena: 13 anni.
Il processo d’appello sarà chiamato dal presidente Biagio Insacco alle 11 e 30. I giudici entreranno in camera di consiglio dopo avere ascoltato il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio che, con tutta probabilità, chiederà di nuovo la parola. Poi, il verdetto. È stato lo stesso Patronaggio in apertura di requisitoria a sottolineare il “diffuso movimento popolare che grida all’innocentismo nei confronti dell’imputato”. Una premessa prima di entrare nel merito di quello che il rappresentante dell’accusa ha definito il “tradimento inaudito” di Cuffaro. Secondo il pg, ci sarebbero dei fatti nuovi che impongono di non appiattirsi sul proscioglimento di primo grado deciso per ne bis in idem: non si può processare un imputato due volte per gli stessi reati. In particolare, tre circostanze confermerebbero i rapporti fra Totò Cuffaro e Cosa nostra e proverebbero l’esistenza di un patto politico-mafioso che serviva per raccogliere voti e fare affari nella sanità.
Innanzitutto c’è un’intercettazione finora inedita. Nel 1998 i carabinieri che indagavano sui alcuni mafiosi delle Madonie registrarono le parole di un indagato. Solo che il nome di Cuffaro venne trascritto in maniera errata dagli investigatori. Ed invece sarebbe stato l’ex governatore, allora assessore regionale all’Agricoltura, il punto di riferimento dei clan madoniti. La rete di talpe in Procura di cui Cuffaro e l’imprenditore della sanità Michele Aiello erano due tasselli fondamentali sarebbe esistita ancor prima che Cuffaro entrasse a Palazzo d’Orleans.
Un’altro circostanza nuova citata dal pg tira in ballo una storia di tangenti. L’imprenditore messinese, e gola profonda, Antonino Giuliano ha ricostruito gli interessi del boss bagherese Michelangelo Alfano nel mondo della sanità. Alfano progettava di costruire delle cliniche private e per mandare in porto l’affare era pronto a pagare una mega tangente da dieci miliardi di lire al duo Aiello-Cuffaro. L’affare saltò e la mazzetta non sarebbe stata pagata.
Infine, c’è il verbale di Gioacchino Pennino, il pentito che ha ricostruito i perversi legami fra la mafia e la politica. Pennino ha raccontato che alle elezioni comunali di Palermo del 1989 la mafia decise di appoggiare una sfilza di giovani democristiani, tra cui Totò Cuffaro. Attraverso di loro la mafia voleva penetrare nel consiglio comunale del capoluogo siciliano.
“Nessuna prova nuova”, hanno replicato i legali della difesa. L’avvocato Oreste Dominioni, che assiste l’imputato insieme a Nino Caleca e Nino Mormino, ha parlato di “processo nato con un vizio genetico che non può concludersi altrimenti che con un divieto di doppio giudicato”. Il riferimento è alle accuse che sono costate a Cuffaro la condanna che sta scontando a Rebibbia dove ha fatto il suo ingresso il 22 gennaio del 2011. Quel giorno le parole del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Galati, alimentarono più di una speranza nell’imputato. A sorpresa era stata chiesta l’esclusione dell’aggravante mafiosa, ma i giudici della Suprema Corte furono contrari. Gli stessi giudici che nella motivazione spiegarono la contiguità con la mafia dell’ex governatore. Per la Cassazione è stata “accertata la sussistenza di ripetuti contatti” fra l’ex presidente e “vari esponenti” di Cosa Nostra. Una frequentazione che “spiega” quale sia stato “l’atteggiamento psichico” dello stesso Cuffaro nel rivelare al boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, “con il quale aveva stipulato un accordo politico-mafioso”, che c’era una microspia in casa del capomandamento. Cuffaro così determinò la “fine sostanziale” dell’indagine da cui sarebbero potuti venire fuori nuovi e importanti elementi investigativi sui quei perversi rapporti fra mafia e politica.