PALERMO– In via D’Amelio, stasera, l’unico lembo autentico di memoria è l’albero, adornato con messaggi e ricordini dei viaggiatori. Disegni stesi da una mano di bambino, visi di ragazze in scatti depositati sulle radici come ex voto, fazzoletti di boy scout ad avvolgere il silenzio di fondo che dal diciannove luglio del ’92 non si è mai spento. In quel silenzio, dopo l’esplosione, rimasero arsi e congelati il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. L’alberello accanto al portone che il giudice non riuscì mai ad attraversare, mentre si accendeva una sigaretta, li protegge. Il resto è marketing. E’ marketing politico il breve comizio – Fabio Granata la definisce addirittura un’orazione civile – che Gianfranco Fini ha scelto di tenere in uno dei santuari del rispetto trasversale per la legalità. Così via D’Amelio dovrebbe essere nelle buone intenzioni di tutti. Ma non lo è mai. E non lo è, perché svela la cicatrice di un furto continuato. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone subiscono un saccheggio, da destra e da sinistra, pressoché quotidiano. I ladri sono le maschere del potere che strappano, piegano e umiliano per mera propaganda un bottino di esempi e di amore verso le istituzioni che i due magistrati nutrirono fino all’ultimo senza ricevere nulla in cambio.
Marketing politico e partitico. Hanno un resistente e affannato argomentare i colonnelli di Fli, uniti in falange accanto al ritornello che abbiamo ascoltato in questi giorni: non ci saranno bandiere di partito, solo il tricolore. Vero, però la scenografia è tipicamente da comizio. Il tricolore, appunto. La musica del ‘Signore degli anelli’, patrimonio acustico della destra dura e pura. Un paio di bimbi con cartelli inneggianti a ‘Libertà e Futuro’. Il mimetismo non riesce. Gianfranco Fini è qui per rivendicare, come capo di Fli, un legame esclusivo e identitario con l’insegnamento di Paolo Borsellino, più volte citato nei suoi passaggi celebri. Un capolavoro di retorica in copia conforme. L’ennesimo atto di invasione di campo che ha uno scopo predefinito: dichiarare la preminenza del marchio, mettere il cappello sopra “un posto dell’anima” (sintesi di Fabio Granata) conservato gelosamente nel cuore dei siciliani di buona volontà. Non è però la consueta retorica dei diciannove luglio, su cui noi cronisti abbiamo versato ettolitri di cattiva coscienza, scrivendo pezzi che titillavano l’enfasi, non spiegando niente. E’ la campagna elettorale del 17 febbraio, a sette giorni dall’ora del giudizio.
E’ il riflesso di paura di una formazione che ha paura di non vedere tornare i conti. E’ il gigantesco terrore, la strizza di chi detiene le leve del comando e sa che presto sarà costretto a cederle. Allora rimane una strada disperata: aggrapparsi ai vettori d’emozione e d’impatto – via D’Amelio, Capaci, le mamme, gli arcobaleni di un esagitato Bersani vociante in Lombardia, gli occhiali fiduciosi di Monti, la corte dei miracoli di Berlusconi –, tentare la presa di un salvagente che ritardi l’inevitabile annegamento. Marketing. Infatti c’è pure la scuola di ballo che si presenta con lo striscione, il numero di telefono e le specialità della casa. Dal liscio all’hip hop. Domanda ai ragazzi che reggono la reclame: perché siete qui. Risposta: per Paolo Borsellino. Per chi altrimenti? Con la pubblicità che muove al sorriso, visto che si mostra innocente nella sua mostruosa evidenza. Almeno non finge. Non si tenta di sviare il discorso. Sì, piccolo spazio pubblicità. In via D’Amelio.
L’orazione civile del presidente della Camera è stanca. Fini è ancora uno dei migliori oratori parlamentari della vicenda repubblicana. Tuttavia, stavolta, l’eloquio è chiaro, eppure gelido. La gestualità non coinvolge. Lo sguardo non incalza. E’ un passaggio fulmineo dalla “terra che sarà bellissima, quando saprà liberarsi dai condizionamenti” ad altri motti di scuola. Non manca la campana del “per battere la mafia, si garantisca il lavoro”. Siamo nello specchio senza alibi. Nell’epicentro della nostra vecchia politica terremotata.
Così, mentre Gianfranco e Fabio se ne vanno, tra scorta e flash, non c’è che l’alberello per recuperare un sorso di dolcezza. Non c’è che ripercorrere la strada di Paolo, Emanuela, Agostino, Vincenzo, Walter e Claudio. Dalle macchine al portone. Senza ritorno. Non c’è che mormorare una preghiera per il fantasma di una sigaretta.