Riceviamo questa lettera da una ‘paziente’ della sanità siciliana che preferisce mantenere la privacy. Nel racconto di giorni difficili e del coraggio che ci vuole a superarli molti si riconosceranno.
Non avevo mai riflettuto veramente sulla parola “paziente”, come sostantivo, non come aggettivo, fino a qualche tempo fa quando i miei genitori – con un sincronismo perfetto degno di due persone che stanno insieme da “appena” 53 anni – hanno avuto bisogno contemporaneamente di “accedere al Servizio Sanitario Nazionale” – come si dice in gergo – a Palermo.
Perché fino a quando godi di buona salute non ci pensi davvero alla parola “paziente”. Ma poi, quando vieni catapultato nella centrifuga di sospetto-diagnosi-trattamento, capisci immediatamente perché un paziente è (o, per meglio dire, deve essere) paziente.
Perché impari presto che le visite mediche hanno orari “di massima”, ma sei costretto ad attendere “pazientemente” il tuo turno su una sedia scomodissima, se non in piedi.
L’attesa di un codice giallo
Perché devi restare lucido, quando arrivi al pronto soccorso “solo” con un codice giallo e vedi scorrere l’orologio e passarti davanti tanti altri codici gialli e qualche codice rosso e tu sei lì che ti senti male. Perché non puoi sclerare, se trascorri la notte su una barella, con l’aria condizionata sparata addosso e la luce che non ti fa riposare un attimo.
E nemmeno puoi lamentarti perché “il farmaco lo portano i parenti, perché in reparto non ne abbiamo”.
Sei paziente mentre aspetti tre settimane per un esame istologico che può cambiare il corso delle tue terapie. E forse anche della tua vita.
E sei paziente quando ti attacchi al telefono per prenotare una risonanza urgente e non ti risponde nessuno e detesti la musichetta registrata.
Sei paziente e abbozzi, quando incroci gli sguardi di tanti (troppi) che affollano i corridoi di un’oncologia medica e leggi la tua stessa paura, la rassegnazione dell’attesa lunghissima, ma anche la fiducia nei medici. Perché solo a loro ti puoi appigliare. O a Dio, se ci credi.
I medici pazienti
Non ci si pensa mai, ma anche i medici sono (e devono essere) pazienti, stavolta come aggettivo. L’ho vista la loro pazienza davanti alle richieste – spesso oppressive, invadenti, pesanti – dei loro pazienti che spesso pazienti non sono.
Sono “medici pazienti” quando fra triage, sala d’attesa, shock room e OBI, ogni tanto qualcuno perde le staffe (e bisognerebbe sempre agire con civiltà).
Sono “medici pazienti” quando ricevono messaggi sul telefono a tutte le ore del giorno e della notte, quando non hanno il tempo di un panino perché, fuori dall’ambulatorio, ci sono ancora cinquanta persone.
O quando a fine turno affogano tra carte, cartelle cliniche e seccature varie, schiacciati dalla burocrazia.
Ma non tutto va male
Ce la prendiamo spesso con questo nostro Servizio Sanitario Nazionale che – senza dubbio – fa acqua da tutte le parti, che, spesso, non fornisce neanche un farmaco, una coperta, un pasto decente a chi sta male.
Però la nostra esperienza di questo periodo dimostra che forse dovremmo essere tutti un po’ più pazienti e che non tutto è così “scassato” come sembra.
Perché nonostante tutto, i miei genitori stanno meglio e io mi sento grata a coloro che a vario titolo si sono presi cura di loro: medici (dai primari agli specializzandi), infermieri, Oss, fisioterapisti.
E credo che se entrassimo negli ambulatori con un sorriso e uscissimo da lì anche con un grazie, forse tutto funzionerebbe meglio. Almeno un po’. (Lettera firmata)