PALERMO – Nonostante Matteo Messina Denaro, boss latitante trapanese, sia il capomafia più pericoloso in circolazione e il suo arresto rimanga la “priorità assoluta”, nella relazione annuale del consigliere della Dna Maurizio De Lucia si sottolinea come “la città di Palermo sia e rimanga il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo, dando concreta attuazione alle linee strategiche da essa adottate in relazione alle mutevoli esigenze imposte dall’attività di repressione”.
La mancanza di un vero e proprio leader non impedisce a Cosa nostra, di tentare “di rinnovarsi – scrive De Lucia – attraverso una conferma delle sue strutture di governo a cominciare da quelle operanti sul territorio di Palermo e in particolare con riferimento alla commissione provinciale di Cosa nostra di Palermo. L’assenza, in Cosa nostra palermitana, di personaggi di particolare carisma criminale in stato di libertà non ha riproposto la violenta contrapposizione interna tra famiglie e mandamenti, allo stato è dato registrare piuttosto una cooperazione di tipo ‘orizzontale’ che, almeno a livello di ‘mandamento’, vede dialogare e cooperare le componenti”. De Lucia auspica, nell’ipotesi di reiterazione dell’associazione mafiosa “un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso per escludere per un non breve periodo di tempo dal circuito criminale quegli appartenenti all’organizzazione mafiosa che dopo una prima condanna, tornino a delinquere reiterando in tal modo la capacità criminale propria e dell’organizzazione”.
Nella relazione annuale della Dna emerge come “Cosa nostra trapanese – scrive il consigliere Maurizio De Lucia -, alleata da sempre con le cosche corleonesi, ha agito in sinergia con esponenti delle famiglie mafiose della provincia di Palermo, presso le quali è stata accreditata da Totò Riina. Talvolta, come in occasione dell’ultima guerra di mafia scatenatasi nelle province di Palermo e Trapani negli anni ’90, vi è stata anzi fra le due componenti del sodalizio mafioso una tale comunione di intenti e di obiettivi da ricondurle quasi sotto un’unica realtà criminale, tant’è che le organizzazioni hanno sempre vissuto, almeno nell’ultimo ventennio, in perfetta simbiosi, legate da uno stretto rapporto osmotico”. L’organizzazione e le scelte operative di Cosa nostra trapanese e di quella palermitana, dunque, sono molto simili e da sempre collegate.
“Oltre che dal perseguimento di obiettivi comuni e da una comune strategia criminale – prosegue – i rapporti di alleanza correnti tra le cosche palermitane e quelle trapanesi affondano radici anche in sottostanti legami di amicizia personale correnti tra i vari capicosca. La vicinanza si è rafforzata soprattutto dopo l’assunzione da parte di Matteo Messina Denaro del ruolo di rappresentante dell’intera provincia di Trapani”. Il latitante ha “nel territorio palermitano, solidi rapporti e precisi punti di riferimento anche nella cosca di Brancaccio, già retta da Giuseppe Guttadauro (peraltro oggi libero per avere espiato la pena), fratello di Filippo, il quale proprio del latitante è cognato, per averne sposato la sorella Rosalia Messina Denaro”. Nel trapanese “l’organizzazione continua a mantenere un penetrante controllo del territorio e a riscuotere consensi tra l’opinione pubblica”, aggiunge De Lucia. In questo contesto, “è quasi normale – aggiunge – che Matteo Messina Denaro, continui a mantenere il suo stato di latitanza” perché gode “di una vasta rete di protezione” formata da soggetti organici a Cosa Nostra ma anche da “una pluralità di altri insospettabili individui – puntualizza De Lucia – che, seppur estranei ad ambienti criminali, vivono e operano in un contesto socioculturale in cui l’adoperarsi in favore di organizzazioni mafiose, o di loro esponenti, viene avvertito come comportamento dovuto”.