PALERMO – “Se la Sicilia vuole davvero cambiare verso, deve dire definitivamente no all’assistenzialismo e ai troppi stipendifici dell’Isola”. Dopo il “decalogo” sulla pubblica amministrazione e quello sulle riforme istituzionali, il responsabile Welfare del Pd Davide Faraone mette le mani sulla spinosa questione del precariato siciliano, proprio nelle ore in cui scadono i dieci giorni concessi al presidente Crocetta per dare qualche “segnale di cambiamento”. Un segnale che sarebbe arrivato già ieri, in occasione del vertice romano.
Onorevole, ha ricevuto dal presidente le risposte che si attendeva?
“L’incontro di ieri è stato molto positivo. Ci siamo chiariti e credo sia l’inizio di un nuovo tipo di rapporto tra il governatore e il Pd”.
E avete fissato però anche un’agenda delle cose da fare…
“Abbiamo deciso insieme di stilare un cronoprogramma, con le riforme da compiere e soprattutto fissando i tempi entro i quali queste dovranno essere varate. Sono ottimista. Adesso abbiamo davanti sessanta giorni per capire se, al di là delle buone impressioni legate all’incontro di ieri, le cose che chiediamo si faranno davvero”.
Le cose cui lei fa riferimento sono quelle in qualche modo indicate nei due “decaloghi” che ha reso pubblici…
“Non solo. In Sicilia credo ci sia un ‘tema dei temi’, che è quello del lavoro, del precariato. Anche in questo senso, la Sicilia deve dimostrare di voler cambiare verso”.
Cosa vuol dire?
“Bisogna smetterla con le prese in giro. Politici di destra e di sinistra finora hanno difeso politiche del precariato e dell’assistenza, a prescindere dai costi e dalla qualità dei servizi prodotti. La Sicilia deve decidere: dire no all’assistenzialismo, no agli stipendifici e sì al lavoro vero”.
Sembra facile…
“Non è facile. Ma intanto bisogna cambiare mentalità. Oggi tutti in Sicilia osannano le stabilizzazioni, chiedono deroghe al patto di stabilità. Ma mentre nel resto del Paese si è chiesta questa deroga per realizzare infrastrutture, scuole, servizi per la cittadinanza, nell’Isola è stata chiesta per stabilizzare i precari. Senza uno straccio di ‘piano industriale’ naturalmente. Una stabilizzazione a prescindere. Che garantisse sicuramente un ‘posto’, non sempre il ‘lavoro’”.
Ma intanto ha garantito il futuro, sebbene a breve termine, di migliaia di famiglie.
“Sì, ma lo sta negando ad altre. Lo stipendificio in Sicilia ha prevalso sull’idea del lavoro vero e sulla qualità della vita dei siciliani. L’Isola è invasa da Lsu, lpu, pip, articolisti… Si tratta di un bacino che di anno in anno è stato alimentato dalla politica e difeso da politici e sindacati, che ha negato il futuro a migliaia di siciliani e ha prodotto un costo ormai insopportabile per la collettività. Risolvere il problema del precariato è una priorità, la cui soluzione condiziona le possibilità di successo di tutte le politiche pubbliche in Sicilia”.
In che senso, secondo lei, questa mole di precariato condiziona lo sviluppo dell’Isola?
“Il costo del precariato non è solo quello che viene contabilizzato nei bilanci pubblici sotto la voce delle spese per il personale, costo di per sé elevatissimo e che sottrae risorse per lo sviluppo e per un welfare equo, ma vi sono ulteriori pesanti conseguenze che derivano dall’esistenza di un precariato così esteso”.
A cosa si riferisce?
“La prima è costituita dal degrado e dall’abbandono di beni pubblici rilevantissimi ai fini dello sviluppo economico e della qualità della vita. Penso a boschi, spiagge, scuole, litorali, riserve naturali, musei, verde pubblico nelle aree urbane, strade. Spesso, infatti, le attività che dovrebbero svolgere le strutture in cui lavorano i precari vengono svolte male, perché queste strutture, in molti casi, sono nate e operano come ‘stipendifici’. La seconda conseguenza consiste nell’impedire la crescita di iniziative economiche sane nei settori occupati dalle strutture del precariato. Infine, assistiamo all’affievolirsi del livello di tutela di importanti diritti dei cittadini, connessi al godimento dei servizi che erogano le strutture in cui lavorano i precari”.
Bene, ma di queste cose si discute ormai da tanti anni. Come pensa che il problema possa essere davvero risolto e in maniera definitiva?
“Intanto bisogna introdurre meccanismi che promuovano, attraverso un adeguato incentivo economico, l’uscita di quanti più soggetti possibili dall’area del precariato, lo sviluppo di politiche attive del lavoro che favoriscano l’inserimento dei precari in circuiti di rioccupazione nel vero mercato del lavoro, l’ingresso di soggetti privati efficienti e rispettosi delle regole contrattuali, nei settori oggi occupati dai soggetti che occupano i precari, prevedendo sistemi di controllo pubblico rigoroso per verificare l’osservanza delle condizioni di lavoro contrattuali e di sicurezza”.
Insomma, la soluzione è spostare il precario degli enti regionali verso il settore privato. L’uovo di Colombo. Ma come pensa che si possa realizzare un progetto simile? Come crede che si possa rompere la vecchia mentalità che vede nel “posto alla Regione”, seppur precario, una specie di paradiso?
“Per realizzare questo disegno occorre riprendere istituti tante volte proposti ma mai realizzati, che sono riconducibili genericamente al cosiddetto ‘reddito minimo garantito’. In sostanza bisognerebbe interrompere i rapporti di lavoro dei precari con le strutture dalle quali oggi sono a carico e non in grado di poterne mantenere l’occupazione (Azienda foreste, Gesip, Società pubbliche, e altre), per farli confluire in un unico ‘bacino’: l’Agenzia regionale per l’equità sociale e la promozione del lavoro”.
Lei sta dicendo: i Forestali, i precari delle partecipate, vengano spinti fuori da quelle aziende e spinti in un unico bacino. E a quel punto cosa abbiamo risolto, se quel bacino dovrà comunque essere sostenuto dai fondi della Regione?
“Intanto bisogna assicurare a questi soggetti, che non superino certe condizioni di patrimonio e di reddito, il diritto a ricevere un ‘reddito minimo’, indipendentemente da qualsiasi prestazione di lavoro, erogato dalla Agenzia, la quale dovrà inoltre promuovere la formazione professionale degli stessi per favorirne il reinserimento nel mercato del lavoro. Un meccanismo a tutela decrescente per un arco temporale variabile in ragione dell’età dei soggetti con un periodo nel quale viene assicurato reddito minimo e copertura contributiva al termine del periodo di fruizione del trattamento di disoccupazione ed un periodo ulteriore di solo trattamento minimo di sostegno al reddito. Meccanismi di penalizzazione crescente dovranno essere previsti se una proposta di lavoro viene rifiutata”.
Più passa il tempo, quindi, meno quel precario avrà diritto al reddito. Vuole, in qualche modo, fissare una “scadenza” al precariato siciliano. Lanciare un ultimatum anche in questo caso? Ma alla fine quei lavoratori che faranno? Dove andranno?
“Molto semplice. I settori sottratti alla gestione delle strutture in cui operavano i precari, saranno aperti ai privati, mediante gara per gestioni in esclusiva, oppure, dove è possibile, attraverso la concorrenza tra più operatori. I soggetti economici privati che subentreranno in questi settori, sostituendosi all’ente pubblico, dovranno stipulare accordi con l’Agenzia regionale per impiegare gli (ex) precari, almeno in percentuale e l’aggiudicazione delle gare dovrà tenere conto anche della proposta di parziale assorbimento. L’assunzione di questo personale proveniente dal bacino potrà essere incentivata con benefici contributivi e fiscali. Questo regime non si applicherebbe a quei gruppi di precari che, in base alla legislazione vigente, hanno intrapreso processi di stabilizzazione. Questa è l’unica strada possibile. Se la Sicilia vuole davvero cambiare verso, non ha scelta”.