Il Pd non esiste più. L’amarissima sentenza, almeno per chi ci aveva creduto, l’ha scolpita Antonello Cracolici nel corso di una direzione regionale del partito di cui sono note le meste cronache. Più che una direzione, in effetti, l’ultima seduta che dichiara il fallimento di una psicoterapia di gruppo, la tragedia di una Waterloo vissuta in una cabina telefonica, un raduno di reduci col gagliardetto della trincea e scialbe foto ricordo, una somma di ‘non possiamo’ e di ‘non vogliamo’. E non è solo una catastrofe di numeri che ovunque – la Sicilia ne è testimone – si assottigliano a vantaggio delle ditte concorrenti. E’ una desolazione di anime che non si ritrovano più. E’ la crisi di uno strappo che non trova il suo rammendo.
Antonello ‘il rosso’ non ha sbagliato a siglare quel giudizio in un contesto lunare che traccheggiava sui regolamenti, sulle fumisterie e sui commi. Lui, tra i vizi che compongono il bagaglio obbligatorio di un politico, almeno, non ha mai sofferto di ipocrisia. Così, eccoci al capolinea certificato di un cammino che assume il retrogusto aspro dell’amarcord, per chi l’ha vissuto da dentro, per chi ne è stato tifoso o spettatore.
Il breviario dei rimpianti è noto e affonda le sue lacrime (di coccodrillo) in anni lontani. C’era una volta il Pds che piantava le sue bandiere orgogliose nel Palazzaccio di corso Calatafimi, tra i corridoi che avevano annotato l’austera presenza degli uomini del Pci. C’erano le sezioni del partito, con le finestre spalancate sulla strada per favorire il contatto epidermico con le persone, non mediato dallo schermo di un computer, quando le persone erano appunto tali, non numeri.
Ci furono i Ds, il sogno dell’Ulivo, il Pd, certo, lungo circostanze più o meno accidentate e difformi. Era quasi sempre lo stesso mondo. A poco a poco, tuttavia, i supremi timonieri al comando, quali che fossero il marchio, le alleanze e le sintesi, decisero di rinunciare al popolo di riferimento, considerandolo, per calcolo sbagliato, per arroganza, per superficialità, irrilevante in calce a personalissimi e sfolgoranti destini. Il punto è proprio questo. E non si scappa.
Le conseguenze di successive abiure di identità, del caos, dello scollamento, della mancanza di appartenenza, di un pragmatismo senza orizzonti, strutturato sul cartellino del prezzo da affiggere e non sulla cultura da sviluppare sono evidenti. Di più: irrevocabili. Non esiste più il Partito Democratico, ormai approdato al borbottio infastidito, accompagnato solitamente da maledizioni, nelle chiacchiere al bar, perché è progressivamente scomparso il suo nutrimento popolare, divorato dagli errori, dall’accidia, dal personalismo, dal carrierismo e dalle ambizioni dei capi che hanno disorientato una comunità.
Una dissolvenza che proviene da una via crucis coronata di pasticci. Assistiamo al monumentale tracollo storico del centrosinistra, come prassi e prospettiva, in forma di definitiva resa dei conti. Ed è terribilmente semplice, adesso, sul greto disabitato del fiume, enumerare la sequela degli sbagli che hanno, in parecchi casi, un marcato accento siciliano, con pregiati inserti romani.
Ricordate, per esempio, l’inciucio con Raffaele Lombardo, il miraggio dell’ingresso nella stanza dei bottoni, l’adesione a un progetto che nulla aveva a che fare con la sensibilità di chi lo subì da militante o elettore? Ricordiamo, per contrappeso, il disastroso rapporto con un altro inquilino di Palazzo d’Orleans, quel Rosario Crocetta sostenuto e avversato, con l’incoerenza di chi piazzava assessori, gabinettisti e uomini di fatica su poltrone, o poltroncine, per poi storcere la bocca davanti al risultato. Il piddino medio leggeva, allibito, quelle vicende sui giornali e cancellava il selfie emiliano con Pierluigi Bersani. Infine, si consacrava a Beppe Grillo e al suo esercito in marcia.
E poi l’immagine di una classe dirigente perfettamente in grado, a Palermo e dintorni, non solo altrove, di farsi la forca, di escogitare riuscitissimi auto-sabotaggi, ma disarmata al cospetto di ogni proposta di sostanza.
E ancora: il renzismo trionfante, la fresca propaganda che si presentò come apocalisse della rottamazione e si rivelò, invece, una vecchia sommatoria di ceto politico sparso, come dimostra la contemporanea presenza di Gianfranco Miccichè e Pierferdinando Casini sul palco dell’ultima Leopolda. I rimasugli di coloro che ci avevano creduto, nel frattempo, se l’erano già data a gambe, mentre i rinnovati clienti della ditta, attratti da scaffali in cui c’era tutto e il contrario di tutto, sono al seguito di un più seducente pifferaio magico. Capita, se scambi la politica con il marketing, se persegui il potere per il potere, rinunciando all’anima.
Dunque, non c’è da meravigliarsi dell’acerrima disaffezione di coloro che entrarono nelle nelle sezioni, nel frattempo chiuse, per uscirne velocissimamente. Il j’accuse cracoliciano ‘Il Pd non esiste più’ è appena il sudario politico, rabbiosamente, onestamente e pietosamente apposto da un protagonista che ha contribuito, con i suoi compagni di viaggio, per la sua parte, alla disgregazione. Casomai il vero incrocio dolente o ghignante è un altro, con punto di domanda: come mai è durato tanto?