Il caso di Carola Rackete e la mancata convalida dell’arresto. Decisione Giusta o sbagliata? Ieri Livesicilia ha ospitato la riflessione dell’avvocato Paolo Grillo. Oggi pubblichiamo un differente punto di vista, firmato da un altro penalista del foro di Palermo, Salvatore Ferrante.
“È notizia di qualche giorno fa la mancata convalida, da parte del G.I.P. di Agrigento, dell’arresto di Carola Rackete, capitano della Sea Watch 3, per i reati di resistenza e violenza nei confronti di una nave da guerra (art. 1100 codice della navigazione) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 codice penale), per avere ignorato l’alt impostole dai militari della Guardia di Finanza e per avere urtato una loro motovedetta con lo scafo della Sea Watch 3.
Il paese intero si è appassionato alla vicenda, dividendosi tra coloro che approvano il provvedimento del G.I.P. di Agrigento e coloro che, invece, lo ritengono ingiusto. Ognuno influenzato nel giudizio dall’orientamento politico per il quale simpatizza.
Io mi annovero tra coloro che ritengono il provvedimento ingiusto.
Alla base del mio convincimento non pongo, però, questioni di tipo ideologico, bensì valutazioni di natura esclusivamente giuridica, che in questa sede ho l’occasione di esplicitare.
Il G.I.P. di Agrigento non ha convalidato l’arresto per il delitto di resistenza e violenza nei confronti di una nave da guerra in quanto ha ritenuto che la motovedetta della Guardia di Finanza non fosse qualificabile come nave da guerra, poiché operava all’interno delle acque territoriali.
A sostegno della propria decisione il Giudice citava una vecchia Sentenza della Corte Costituzionale, la numero 35 del 2000, che decidendo sull’ammissibilità di un referendum abrogativo mirante alla smilitarizzazione della Guardia di Finanza, affermava che le unità navali di quel corpo armato sono considerate navi da guerra “solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare”.
La Sentenza citata dal Giudice non dice, però, questo. Dice, semmai, che i mezzi nautici della guardia di finanza, al pari di quelli della Marina Militare, sono mezzi militari e a riprova di ciò afferma, tra le altre cose, che quando operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare, le sue unità navali esercitano le funzioni di polizia proprie delle “navi da guerra”. Ma non esclude da nessuna parte che esse svolgano la medesima funzione anche quando operano in acque territoriali.
La natura di nave da guerra delle motovedette della Guardia di Finanza è confermata, inoltre, da alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione, che il Giudice di Agrigento ha del tutto omesso di valutare.
Mi riferisco, in particolare, alla Sentenza numero 31403 del 14 giugno 2006, che riguarda un caso di speronamento di un’imbarcazione della Guardia di Finanza da parte di una barca privata che nel corso di un’operazione di controllo sulla pesca abusiva di molluschi non si era fermata all’alt.
La Corte, in quel caso, ha affermato che è indubbia la qualifica di nave da guerra attribuita alla motovedetta non solo perché essa era nell’esercizio di funzioni di polizia marittima e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perché è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria.
La Cassazione nella sua decisione ha richiamato anche un’altra pronuncia precedente, la numero 9978 del 1987, che aveva stabilito che una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra.
Tra l’altro, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 1982, che cito solo perché il G.I.P. di Agrigento nella sua Ordinanza ha richiamato più volte, all’articolo 29 afferma che “per nave da guerra si intende una nave che appartenga alle Forze Armate di uno Stato, che porti i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità e sia posta sotto il comando di un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio sia sottoposto alle regole della disciplina militare”.
Insomma, tutte le fonti normative e giurisprudenziali confermano la natura di nave da guerra delle motovedette della Guardia di Finanza e sembrerebbe che l’Ordinanza del G.I.P. di Agrigento sia il primo provvedimento di un’autorità giudiziaria che neghi tale status.
Con riferimento al reato di resistenza a pubblico ufficiale, il G.I.P. di Agrigento ha, invece, affermato che la condotta di Carola integra l’elemento soggettivo di detto reato (in altre parole, ha considerato il suo gesto intenzionale), tuttavia, ha ritenuto tale condotta “scriminata” (giustificata, non punibile) a norma dell’articolo 51 del codice penale, perché la Capitana avrebbe agito nell’adempimento di un dovere: quello del salvataggio in mare di soggetti naufraghi e la loro conduzione fino al porto sicuro più vicino.
È indubbio che in capo al capitano di una nave vi sia il dovere in parola, ritengo che Carola detto dovere l’abbia però violato.
Il G.I.P. ha più volte richiamato nella sua Ordinanza la Convenzione S.A.R. di Amburgo del 1979, sulla ricerca e soccorso in mare.
La Convenzione in parola dispone che la nave che effettua un salvataggio debba richiedere al paese competente per l’area S.A.R. l’assegnazione di un porto sicuro. Quindi, la scelta del porto sicuro non è lasciata alla libera valutazione e alle conoscenze personali del capitano di una nave, bensì è riservata dall’autorità marittima dello stato responsabile per l’area di ricerca e salvataggio nella quale è avvenuto il soccorso.
Ebbene, risulta che il salvataggio dei naufraghi sia avvenuto a 47 miglia marine dalle coste libiche, ovvero, in piena area S.A.R. di quel paese. Il capitano della Sea Watch 3, secondo quanto riportato nell’Ordinanza del G.I.P., avrebbe chiesto alla Libia, all’Olanda, all’Italia e a Malta l’indicazione di un porto sicuro. La Libia, responsabile per quell’area S.A.R., ha immediatamente risposto alla richiesta, assegnando quale porto sicuro di approdo quello di Tripoli.
Carola, tuttavia, ha deciso che quello di Tripoli non fosse un porto sicuro e si è diretta verso Lampedusa. Nel corso del suo interrogatorio la “capitana” ha precisato di avere scartato anche la possibilità di sbarcare a Tunisi, poiché non riteneva neanche quello un porto sicuro, e Malta, in quanto più lontana.
A mio parere Carola non aveva alcuna possibilità di scegliere il porto sicuro dove condurre i naufraghi ma aveva il dovere giuridico di condurli nel porto indicatogli dall’autorità marittima responsabile per l’area S.A.R. nella quale è avvenuto il soccorso.
È inammissibile che un soggetto privato, che opera per conto di una O.N.G., sindachi l’indicazione fornitagli dal governo legittimo di uno stato sovrano che ha aderito ad una Convenzione tra stati, che gli attribuisce la responsabilità di un area S.A.R., che nell’adempimento degli obblighi derivanti dalla stipula di tale Convenzione individua un porto sicuro, dove – tra l’altro – consente all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di operare. Ciò rappresenta un’indebita interferenza nei rapporti tra gli stati.
Tra l’altro, bisogna ricordare che i naufraghi in questione non erano croceristi che si sono scontrati contro un iceberg, bensì soggetti che si sono imbarcati per tentare di entrare clandestinamente in Italia.
Carola, ha scelto di non portare i migranti nel porto che gli era stato indicato dall’autorità che, secondo la Convenzione che ella stessa stava invocando era l’unica legittimata ad individuare il porto sicuro di approdo, per portare i migranti nel luogo desiderato, ovvero quello della destinazione prefissata fin dalla partenza, scartando ogni altra possibile destinazione alternativa.
Il governo Italiano, a mio parere, era più che legittimato ad opporre il rifiuto di concedere un porto alla Sea Watch, perché era evidente la violazione della Convenzione di Amburgo da parte della “capitana” della nave.
Diverso sarebbe stato il caso in cui la Libia non avesse ottemperato al suo dovere di indicare alla Sea Watch 3 il porto sicuro di approdo, perché in tal caso sarebbe stato compito dell’Italia indicarne uno ed in caso di rifiuto, forse, la forzatura del blocco navale poteva anche ritenersi giustificata.
In conclusione, ci tengo a precisare che non condivido, anzi, condanno, gli attacchi, anche personali, al G.I.P. di Agrigento che ha emesso l’ordinanza impugnata. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono un valore che va difeso. I provvedimenti dei giudici vanno sempre rispettati, se non si condividono, si impugnano, come auspico faccia la Procura della Repubblica di Agrigento, ma non si mette in discussione l’integrità del giudice.