Ero lì, sul pianerottolo di un 7° piano, che aspettavo il medico che mi aveva fissato un appuntamento per le otto del mattino. Ero arrivato, come mia abitudine, con congruo anticipo. Contavo, nell’attesa, di leggermi il giornale. E proprio lì, sul pianerottolo di quel settimo piano, appollaiato sul corrimano della scala, che l’ho visto. Parlo di un piccione. Era in difficoltà perché svolazzava disordinatamente alla ricerca di una via di uscita, che però non riusciva a trovare. Ogni volta si schiantava su una vetrata. Tornava ad appollaiarsi, e poi riprovava., prendendo un’altra botta.
Ammetto di essere rimasto ad osservare per qualche minuto, e con aria vagamente compiaciuta, i suoi disperati tentativi. Pensavo a quella mattina di qualche tempo fa, mentre mi stavo recando in Tribunale con la bici, tutto elegante con la mia giacca blu, ed ero stato centrato proprio da un piccione. Chissà cosa aveva mangiato. Fatto sta che quel getto arrivato sulla giacca e poi scivolato giù, lungo la manica, non dico che avesse le dimensioni di una secchiata di acqua, ma poco ci mancava.
Forse è per questo che non ho alcuna simpatia per i piccioni. Aggiungo che trovo velleitaria, e anche offensiva, questa insopportabile sfida che hanno con gli automobilisti. Si piazzano lì, al centro della strada, incuranti delle autovetture, e si divertono a volare proprio un attimo prima di essere arrotati. Quasi sempre gli va bene. Quasi.
Sfottono quelli che viaggiano su due ruote. Non si schiodano di un centimetro dalla strada. Ciclisti e motociclisti sanno bene che vanno scansati se non vogliono rompersi l’osso del collo. “Sei entrato, e ora, non sai più come uscire, eh?” questo pensavo con una certa soddisfazione.
Ma mi è durato poco. Poi, a prevalere è stata la solidarietà, il perdono. Non so voi, ma con me funziona così. Il “nemico” lo voglio distante, perché la lontananza ne lascia intatto tutto quello che di lui non sopporto. Invece, se lo vedo da vicino, mi rendo conto che forse non è poi così brutto, e magari finisce pure che ci trovo qualcosa di buono. Insomma, per farvela breve, ho capito che la sola via d’uscita che aveva, era quella di volare giù al piano terra. Li c’era il portone aperto. E così gliel’ho detto. “Giù, devi andare giù” gli sussurravo.
Lui forse non capiva. Allora ho posato il giornale, e gli ho mimato il volo, la traiettoria, la picchiata che doveva prendere. Tanto, a quell’ora non c’era nessuno, e potevo spingere solidarietà e perdono ben oltre i confini del ridicolo. Mi sono ricomposto solo quando ho sentito il rumore dell’ascensore che arrivava al piano. Era arrivato il medico. Deve essersi accorto di qualcosa, perché guardandomi mi ha detto “Tutto bene”?.
Al termine della visita medica, il piccione non c’era più, e vi devo confessare che me ne andai al lavoro con un senso di appagamento. Mi piaceva crogiolarmi nella illusione che lui, il piccione, avesse trovato una via di fuga, grazie a me. Il capitolo secondo è che appena due giorni dopo, mentre ero in bici, giusto in quella zona, mi trovo un piccione proprio al centro della pista ciclabile. Incurante del mio sopraggiungere, zampettava tranquillamente, sfacciato, arrogante, insolente. Tutta sua la pista.
Mi è venuta la tentazione di scendere dalla bici e cantargliene quattro. Avrei voluto dirgli di guardarmi bene, perché, chissà, lui poteva essere proprio quello dell’altro giorno, ed io quello che lo aveva salvato. Questo gli avrei detto. E che, comunque, non era neppure il caso di fare tanto lo spiritoso, perché a volte, se uno si sente troppo sicuro, può anche lasciarci le penne, e che nella vita non si sa mai. Io, per dire, potevo anche essere lo stesso sul quale aveva cacato tempo prima, e che poi gli era stato utile. Avevo pure il giornale da fargli vedere, con le ultime sulla politica di casa nostra, giusto per rendere più incisivo il concetto. Naturalmente non ho fatto nulla di tutto questo. Troppa gente in strada, per colloqui di questo tipo. Ho rallentato, gli sono passato vicino, piano piano. L’ho guardato. Lui pure mi ha guardato.
“Cacchio vuoi?”, ho avuto l’impressione che mi dicesse.