Ormai è un disco rotto. Qualunque cosa si dica o si scriva, c’è sempre un nutrito drappello di intellettuali pronti a scovare tra le righe uno stereotipo culturale che, di volta in volta, è razzista, sessista, omofobo o tutte queste cose insieme. Nei social, nei giornali, nei salotti, bisogna stare bene attenti a come ci si esprime perché ogni nostro atteggiamento è guardato con la lente di ingrandimento del politicamente corretto, in grado di individuare anche un non detto, un sottotesto, magari entrambi inesistenti. Difficile farla franca.
Un po’ come con gli esami clinici. Tu puoi essere sano come un pesce, ma qualcosa viene fuori sempre. Abbiamo superato addirittura gli americani, gli inventori del politically correct. L’altro giorno, per dire, mi è capitato di assistere allo spettacolo di un comico statunitense. Sciorinava, una dietro l’altra, una serie di micidiali ed esilaranti battute che spaziavano dalla ammirazione per il padre, ( non l’ho mai visto picchiare mia madre. Pausa. Era velocissimo) all’amica che gli aveva telefonato per accusarlo di influenzare negativamente il proprio marito (ti hai mai detto puttana? No. Ti ha mai detto troia? No. Allora io non c’entro) ad altre pungenti e divertentissime incursioni su temi per noi assai sensibili. E il pubblico ad applaudire.
Certo, può anche non piacere, ma mi risulta difficile immaginare che questa mordace e corrosiva comicità si sia dovuta difendere dall’accusa di generare odiatori seriali o di sdoganare gli istinti più bassi della gente. Negli USA si limitano a ridere o a non ridere, e tutto finisce lì. Qui da noi, invece, tutti sempre in cattedra, con l’indice puntato, con la bacchetta in mano ad istruire improbabili processi sul trailer del film di Checco Zalone o sulla recensione giornalistica di una fiction su Nilde Iotti. Tutti cupi, seriosi, accigliati.
E’ proprio così. Il politicamente corretto ci sta rendendo tutti più tristi. Molti sostengono che sia diventato una sorta di dittatura. Esagerano. Io mi limito a definirla una vera e propria ossessione.
Mi ricorda di quando, da ragazzo, parlavo coi “pazzi” di Via Pindemonte. Ci andavo ogni giorno, io, al manicomio. Vi sto parlando degli anni 70, e vi tralascio i particolari. Molti pazzi erano rinchiusi lì da decenni, senza più famiglia, abbandonati, umanità dolente, insomma. Io ci giocavo a carte. Ci parlavo, coi pazzi. Molti mi raccontavano le loro tristi storie. Puntualmente concludevano dicendomi “ i pazzi non siamo noi. I veri pazzi sono quelli che stanno fuori”
Comincio a pensare che forse avevano proprio ragione.