L’epidemia continua inesorabile a dilagare, soprattutto nel Nord Italia: lo dimostrano i numeri dei bollettini quotidianamente pubblicati, commentati, spettacolarizzati.
Nel frattempo il sistema sanitario boccheggia e si industria per adattarsi alla situazione, facendo incetta di materiali, moltiplicando i posti letto, arruolando le giovani leve della medicina, e già si parla di prorogare le scadenze delle misure di rigore, previste nei decreti che ci sono piovuti addosso nei giorni precedenti. Si minaccia persino d’inasprirle, vista la tendenza birbona di parecchi ad aggirarle con ogni incredibile pretesto.
Il “liberi tutti” – ma lo si era intuito sin da subito – è ancora al di là da venire perché l’epidemia è in piena corsa e l’Italia deve fare i conti non soltanto con l’emergenza sanitaria, ma anche con quella economica. Che non è uno spettro del futuro, ma un mostro del presente, dato che una buona fetta della popolazione, sostanzialmente coincidente con quanti non possono far affidamento “sul 27”, rischia mentre si scrive di trovarsi in seri guai.
L’unico rimedio – ci hanno detto – è stare a casa, e ce lo dobbiamo far piacere per forza dato che, empirico per quanto si vuole, ed in mancanza di una soluzione vera – cura specifica o vaccino che sia – non ve n’è altri da metterne in campo. Il rallentamento dell’epidemia, profetizzato dagli esperti, si spera quantomeno che dia modo alle strutture sanitarie di potere prestare assistenza a tutti i pazienti, affetti o no da Covid-19. Quando ci saremo lasciati alle spalle quest’incubo prenderanno il via, come da copione, le dietrologie, i “ve l’avevo detto io!” e gli scaricabarile. Possibilmente ne seguiranno inchieste non soltanto giudiziarie che, come sempre in questi casi, non approderanno a nulla: di chi è stata la responsabilità, se mai ve n’è stata una, di tutto ciò? Chi avrebbe dovuto impedire il propagarsi del contagio, che ha raggiunto ad oggi proporzioni da fare concorrenza alla Cina, la quale non è certo dietro l’angolo? E soprattutto: era realmente possibile scongiurare quello che si sta verificando? Siamo nel Paese che più d’ogni altro si crogiola nelle dietrologie, quindi è inevitabile: rassegnamoci a vedere il peggio e prepariamoci ai tornei rissosi fra i veri addetti ai lavori, i tuttologi e i vociferanti opinionisti della domenica; scopriremo – a auguriamoci di avere, per quella data, sufficiente allegria per riderne – che in molti avevano pronta la soluzione in tasca ma che, vuoi per intrighi, vuoi per complotti o per chissà quali invidie, quella soluzione non fu adottata.
Non osiamo avventurarci a pronosticare stime – anche questo è un esercizio cabalistico che può legittimare tutto e il contrario di tutto – e attestiamoci quindi sull’oggi: lo stop forzato di ogni attività non impiegatizia aprirà fratture sociali proporzionali ai disastri economici che ne deriveranno. Non è ancora chiaro, perché evidentemente non lo sa nessuno, come si pensa di fare concretamente fronte al buco nero verso il quale stiamo galoppando: per adesso l’attenzione è polarizzata dai numeri del virus, ma dopo? Le prime misure di sostegno economico sembrano avere la consistenza della carta velina, e hanno la capacità di far intristire i variopinti arcobaleni sormontati dall’ “andrà tutto bene”. Se altri – e ben più concreti – provvedimenti non verranno adottati bisognerà davvero preoccuparsi della sopravvivenza di un grosso scampolo di tessuto economico fatto di commercianti, artigiani, professionisti. Insomma, di chiunque non possa contare su un lavoro subordinato, meglio ancora se pubblico.
“Wuhan, combatti!”, urlavano dalle finestre fino a due mesi fa i cinesi reclusi nei propri appartamenti. Gli orientali hanno una concezione severamente militare dell’impegno. Noi, popolo canterino e danzante, abbiano replicato in accordo con la nostra natura, privilegiando pizzica, tarantella e canzoni neomelodiche, da inframezzare all’inno di Mameli o ai classici della musica leggera. Lo sventolìo dei tricolori, solitamente riservato alle non sempre fortunate imprese calcistiche degli Azzurri, ha restituito l’immagine rumorosa ed effimera di una parvenza di sincera coesione. L’accoramento per la dura situazione in cui versiamo ha compiuto persino qualche miracolo condominiale: nei palazzi delle città gli inquilini più rissosi hanno deposto le armi, archiviando – forse momentaneamente, data l’impossibilità di sfogarli negli agoni arroventati delle assemblee di condominio – i reciproci puntigli e hanno fraternizzato da un balcone all’altro, un po’ come se fossero in opposte trincee della Grande Guerra.
Soltanto la retorica, principale dote del popolo italiano, appare indelebile e sempiterna. I medici e gli infermieri sono gli eroi del momento: gli si dedicano murales e scritte grondanti gratitudine. Ci si commuove per i loro titanici sforzi e per le fatiche dei turni non-stop, se ne ammira la magica bravura nello strappare alla morte ogni paziente e si piange quando qualcuno di loro, a stretto contatto con gli ammalati, a sua volta s’infetta col coronavirus. E mentre si intonano inni a chiunque indossi un camice, promettendo di portarlo in trionfo un domani non appena l’epidemia si sarà esaurita, ci si dimentica di averne fatto bersaglio per anni di azioni giudiziarie il più delle volte così irriconoscenti e infondate da sconfinare nella pretestuosità più sfacciata. Ma si sa: le mode – anche quelle sportive – sono cicliche. Ritornerà certamente anche quella del tiro a segno contro chiunque abbia prestato il giuramento d’Ippocrate.
Per quei tempi, però, il coronavirus sarà soltanto un brutto ricordo.