Maria Lucrezia Rallo (nella foto), 22 anni, ha ricevuto l’onorificenza di ‘Alfiere della Repubblica’, nel 2020, dal Presidente Sergio Mattarella. Studentessa di Scienze della Comunicazione a Palermo, ecco una sua riflessione per LiveSicilia.it.
Ho imparato a leggere e scrivere a cinque anni, quando sono stata catapultata in prima elementare sotto suggerimento della maestra che ripeteva sempre: “All’asilo si annoia, mandatela a scuola”. I miei genitori si sono fidati, anche perché pensavano che di questi tempi avere un anno d’anticipo può essere un vantaggio.
Si sa, a parità di punteggio si sceglie sempre il più giovane.
La scuola e lo studio
Poi la nostra società è abituata alle mega lauree in tempi record, ai bambini prodigio e tutte quelle belle storie che amano i giornali.
Ho seguito questa mentalità per così tanto tempo che sono arrabbiata con me stessa per aver creduto alla narrazione di un’eccezionalità necessaria, quando la cosa migliore che si possa fare è essere diamanti grezzi con punte di eccezionalità.
Quell’anno l’avrei potuto perdere magari con una bocciatura, ma non era neanche in programma, non potevo permettermelo, non volevo.
Così, nella mia scuola di periferia, tra pregiudizi, opportunità e tanto studio, sono arrivata ai 18 anni durante la fine del primo quadrimestre del quinto anno.
Gennaio 2020, nessuna festa, nessun viaggio, nulla. Un compleanno come gli altri: non volevo evidenziare una solitudine che sentivo dentro e fuori. Poi tutto era una perdita di tempo per me che avevo un solo obiettivo: il diploma. Amavo studiare, però amavo meno andare a scuola.
L’annuncio del premier Conte
Ero seduta sul divano post-cena quando il premier Giuseppe Conte apparve in tv, in quel 9 marzo 2020 che mi ha cambiato la vita.
Eravamo stati chiusi in casa, entrati in guerra con l’invisibile e il mio primo pensiero è stato: “Devo rinnovare la carta d’identità altrimenti non posso iscrivermi ai test d’ingresso per l’università”.
Mentre la gente fuori moriva, gli ospedali erano al collasso così come il personale sanitario, io mi collegavo ogni mattina alle otto dal mio smartphone, perché il computer serviva a mia sorella, e seguivo lezioni improvvisate con lavagnette magnetiche del frigo su cui la prof scriveva i dati dei problemi e lezioni di letteratura con il supporto di Rai Scuola.
Io non dovevo più alzarmi presto per fare la spola da Marineo a Palermo. A casa, protetta dal dispositivo, io mi sentivo al sicuro.
Senza rendermene conto comprai un computer, le lezioni diventarono sempre più raffinate e il maxi-orale del 2020 era alle porte. Scherzando, e lo dico ancora, penso che fra vent’anni ci chiameranno come in quel film “Immaturi”.
Non mi capitava mai di pensare a cosa mi stessi perdendo: i cento giorni, la notte prima degli esami (meno introiti per Venditti quell’anno) e soprattutto quell’età così strana ma bella dei 18 anni.
In men che me ne accorgessi quella sicurezza di casa divenne torpore, insicurezza, paura di accendere il microfono nei momenti sbagliati, che dall’inquadratura si potesse vedere qualcosa di strano, e via via sempre peggio.
La chiusura nel silenzio
Ho iniziato a chiudermi nel silenzio, ascoltavo e prendevo appunti perché l’idea di parlare e non sapere se potessi essere registrata con degli smartphone o l’idea che dietro la telecamera spenta e il microfono spento ci potessero essere risate o giudizi mi immobilizzava. E poi chi ascoltava ciò che dicevo? I miei errori? Chi c’era nella stanza oltre i prof, i miei compagni e poi quelli che sono diventati i colleghi?
Ho studiato Medicina per tre anni e non ho mai conosciuto i miei colleghi.
Perché ho iniziato vedendo 150 schermi neri su Teams, poi qualche volto agli esami, che erano diventati super ansiogeni per me perché giravano le registrazioni di esami considerati da alcuni “divertenti”, e poi durante il terzo anno, a lockdown finito, per i tirocini.
Perché sì, il lockdown è finito, ma dentro di me non se n’è mai andato.
A un certo punto le restrizioni si sono allentate ma io avevo paura di riconnettermi con il mondo, e non per il contagio, ma perché non sapevo materialmente come fare. Mi sentivo costantemente a disagio, costantemente “vista” e non protetta dal mio dispositivo.
Quando ho provato ad andare a lezione al secondo anno o al terzo puntualmente non intervenivo quando avevo domande, non uscivo per la pausa e scappavo al termine della lezione. Ho preferito non frequentare più, troppa sofferenza.
Avevano iniziato a fare qualche festa per universitari, ma in realtà io non ne avevo capito nulla, chiamavo ancora “compagni” i miei colleghi, e non mi ricordavo più cosa significasse stare in un luogo con altre persone. Preferivo restare a casa. Sono rimasta così tanto tempo a casa che non potrei quantificarlo.
In ospedale, invece, sembrava davvero, per certi versi, che il lockdown non fosse mai finito e lì, paradossalmente, protetta dalla mia mascherina, mi sentivo più al sicuro. Fare il tirocinio non mi dispiaceva, e a questa esperienza devo il vero punto di svolta della mia vita.
Nessuna protezione per la sofferenza
Ma la mascherina non poteva proteggermi dalla sofferenza che avevo dentro di me, dalla sofferenza che vedevo in quei letti che a volte si svuotavano.
Perché anche se avevo studiato, avevo faticato e l’idea di aiutare gli altri mi piaceva, mi ero resa conto che era tutto sbagliato. Io ero sbagliata in quel posto. Io non potevo esprimere le mie punte di eccezionalità. Io soffrivo, risuonando, per la sofferenza dell’altro. La mia sensibilità era diventata un limite.
Settembre 2023. Dovevo iscrivermi al quarto anno e nel mentre moriva per un tumore letale la mia nonnina paterna. Morte quasi improvvisa perché il bastardo non ci aveva dato preavvisi fino al mese prima. Assistere alla morte di un caro, terminale, nella tua casa, negli spazi che abitavate insieme, è terribile.
Da studentessa di Medicina mi è stato chiesto, a partire dall’assistenza “fine vita” fino a quelle persone che mi conoscevano meno, di mantenere un’analiticità che ho capito in quel momento non appartenermi.
Nei momenti della morte di mia nonna ho capito che il migliore aiuto che potessi dare agli altri era mettermi da parte e trovare il modo per poter brillare con tutte le mie peculiarità in un altro ambito.
Il sogno di una vita
Ho scelto di inseguire il primo sogno della mia vita e mi sono iscritta al primo anno di scienze della comunicazione ad Unipa.
E cosa ho trovato? Ragazze e ragazzi del 2004/2005 che stavano cercando di ricostruire pezzi dell’adolescenza che gli erano stati tolti dal Covid e in quell’opera di costruzione personale e collettiva ho capito che forse la vita mi stava dando l’opportunità di avere un nuovo inizio. L’opportunità di iniziare a lottare con quel lockdown che non era più fisico ma emotivo.
Sono andata al mio primo giorno di università a 21 anni.
Ho preso la metro, ho percorso il viale del campus, ho fatto esami in presenza, ho fatto interventi a lezione ed è paradossale perché è come se fossi tornata a febbraio 2020 nella mia classe di scuola però con un bagaglio enorme dentro.
Sto vivendo adesso il mio essere universitaria e anche parte della mia adolescenza con la consapevolezza di stare lavorando per sapere esattamente cosa voglio per me.
Se è vero quello che mi ha detto il Presidente della Repubblica, durante la mia premiazione per essere diventata Alfiere della Repubblica Italiana, allora sono sulla strada giusta.
Sono contenta di ogni passo fatto perché tutto concorre al bene, tutto concorre alla formazione della persona che voglio diventare.
Le parole del Presidente: “Ciò che ti rende speciale e un orgoglio per la nostra terra, per la nostra Palermo, non è quanto sei brava a fare le cose ma quanto cuore e passione ci metti nel farle. Non cambiare”.