PALERMO- Maurizio, da vent’anni in Piemonte, medico e chirurgo da trent’anni, lui che di anni ne ha cinquantanove. L’amicizia, Il mare di Mondello, le panelle, la scelta, dolorosa, di partire, per affermarsi. E il lavoro che arriva con il prezzo del distacco che molti siciliani di grande talento pagano. Maurizio Ippoliti, profilo leggermente simile a quello di Ivano Fossati, cantautore di una e più generazioni, con tanti suoi colleghi, punto di riferimento dell’ospedale di Mondovì. Nell’occhio del ciclone di una tempesta mai vista.
Cosa ha di diverso questa malattia rispetto alle altre?
“A parte l’invisibilità subdola del nemico, il suo tasso di contagiosità davvero alto che non risparmia nessuno giovane o anziano che sia”.
Cosa si sperimenta, da dottori, ad affrontarla?
“E’ un esperienza che mette a dura prova la propria sfera emotiva, perché fa crescere in noi operatori sanitari un senso di impotenza che lotta con la speranza. Fai ciò che puoi con ciò che hai. E speri, appunto, che le cose vadano bene”.
Cosa ti ha colpito di più?
“Devo dire la velocità con cui alcuni pazienti passano dalla fase del respiro autonomo alla necessità di un supporto respiratorio meccanico, senza rendersi conto nemmeno loro stessi che i loro parametri di saturazione, cioè la quantità di ossigeno nel sangue, stanno precipitando velocemente”.
Umanamente?
“Viviamo storie al limite. Ho ricevuto un messaggio da un mio caro e storico paziente purtroppo contagiato con il Covid 19 che io sapevo intubato nel nostro reparto di rianimazione e per il quale ero in ansia. Ho pensato che fosse una buona notizia, invece era, purtroppo, la moglie che scriveva. E che, in un momento terribile, aveva il coraggio di ringraziare noi medici”.
Hai paura?
“Sì… certo. Ma non ci penso. Ogni mattina quando mi reco in ospedale, mi impongo di comportarmi come quelle forze dell’ordine che escono per presidiare un posto di blocco dando per scontato che potrebbero lasciarci la pelle. Lo fanno e basta e non ci pensano. E lo fanno per uno stipendio pari alla metà del mio”.
E’ l’esperienza professionale più difficile?
“La più impegnativa, soprattutto dal punto di vista emotivo, come dicevo”.
Cosa possiamo sperare?
“Che il contagio venga ridotto e successivamente annullato dal senso di responsabilità di ognuno di noi. Dobbiamo seguire le indicazioni di contenimento e di igiene che ci vengono date. Ai più giovani, ai nostri figli, dobbiamo spiegare la situazione senza tacere niente e senza traumatizzarli. Come ne ‘La vita è bella’, quando Benigni tratta l’orrore come un gioco, per non appesantire il suo bambino. Ma gli fa comprendere che ci sono delle regole che vanno assolutamente rispettate”.
Quando pensi che finirà?
“Non so rispondere con esattezza. I dati peggiori sembrano in discesa. I numeri dei guariti sono finalmente superiori a quelli dei deceduti e questo lascia sicuramente spazio a un po’ di ottimismo: credo che il lockdown, o quarantena che si voglia chiamare, durerà ancora almeno un mese poi si vedrà”.
Secondo te in Italia è stato fatto tutto il possibile?
“A mio modo di vedere sì. Sia sul versante politico che su quello sanitario. Quando chi di dovere ci consigliava caldamente di ridurre ed evitare i contatti, la gente non ascoltava quei suggerimenti: lo dico senza polemizzare. Voglio ricordare che il nostro Servizio Sanitario Nazionale è tra i più completi per prestazioni e tra i migliori in assoluto nel mondo. In Europa per sicurezza è il secondo e questi sono dati dell’OMS.
Quanto siete stremati?
“Moltissimo. Purtroppo coloro che non ce la fanno si contano giornalmente e questo incide sulle nostre risorse emotive”.
Cosa ti andrebbe di dire ancora?
“Una precisazione sulla mia categoria”.
Prego.
“Per tanto tempo noi della Sanità siamo stati vituperati, denunciati molto spesso per nulla e aggrediti. Oggi siamo tutti gli eroi del momento. Eppure, siamo sempre gli stessi, con la nostra forza e con la nostra fragilità. Col nostro impegno e con i nostri limiti. Siamo dolorosamente consapevoli di non essere sempre all’altezza delle aspettative dei nostri pazienti, per elementi che sono oggettivi, e per questo la nostra angoscia è immensa. Non a caso ci chiamano i guaritori feriti”.
Vorresti tornare in Sicilia un giorno?
“Sogno, nei pochi momenti liberi, un tuffo nel mare di Mondello. E non per fuggire, ma per darmi forza e coraggio”.