CATANIA – Piace l’apertura del Sacello. Piace ai devoti e anche ai turisti. Ogni volta un successo. E non poteva essere altrimenti, vista l’aura di mistero che accompagna da sempre la stanzetta (perché di questo si tratta, nulla di più). Prende aria sempre più spesso quel santo luogo. Tre eventi soltanto di recente e già si parla di una quarta volta da mettere quanto prima in agenda. Ma quale sia lo spirito di tale iniziativa non è ben chiaro. Un dubbio, più che una critica. Già, perché la prima volta il motivo c’era: quello di rendere visibile alla città il lavoro di restauro appena realizzato degli affreschi interni. Belli, bellissimi: da togliere il fiato. Delle altre due volte, troppo ravvicinate nel tempo – a dire il vero – non si è ben capito il fine. Forse per compiacere il pubblico. Ma solo forse. Una motivazione di per sé legittima, ma non esaustiva.
Altra cosa sarebbe rendere le reliquie visibili tutto l’anno, a disposizione perenne di devoti e fedeli. Non una provocazione, ma un’ipotesi figlia della Storia. Da condividere o rifiutare, ma non da derubricare a mera provocazione. E neanche da censurare temendo chissà quale reazione popolare. No, affatto: quella dei devoti non è una massa permalosa come spesso la si descrive. Monsignor Gaetano Zito, vicario episcopale della Cultura, lo va predicando da tempo che in passato le cose andavano diversamente. Che fino al XV secolo sant’Agata era sempre lì in cattedrale, ma visibile a tutti. La cancellata della cappella a lei dedicata non fu prodotta dopo il furto delle reliquie. Eccolo, un altro mito ancora da sfatare. Il sacello fu realizzato, invece, da Maria de Avila, moglie del viceré Ferdinando di Acugna, in suo onore: per seppellirlo accanto alla santa. Il nobile morì nel 1494.
Per avere idea di come stessero le cose prima di allora, basta guardare la Cattedrale di Acquisgrana. Lo scrigno con i resti Carlo Magno è sull’altare, protetto da una robusta teca di vetro. Molto probabilmente sant’Agata era anche lei assisa come una regina. Parlarne non significa andare contro la tradizione, ma riconnettere gli ultimi sei secoli – non pochi a dire il vero – di storia catanese a una tradizione molto più antica e sacra. In fondo, la tomba di san Pietro a Roma è lì visibile, sotto la cattedra del papa. Anche quella di san Paolo è meta costante di pellegrinaggio. Per venire ai giorni nostri, il corpo di padre Pio da Pietralcina, a San Giovanni Rotondo, è sotto gli occhi di tutti tra i mosaici della cripta posta sotto l’altare centrale. Insomma, di richiami, anche autorevoli, ce ne stanno.
È tutt’altro che vero che nella Festa non ci sono mai stati cambiamenti. Guardando agli ultimi anni le trasformazioni sono state anche clamorose. Parlare della ricollocazione del busto si può, quindi. E forse si deve. Anche per capire verso quale direzione va la Festa. Se va – come vogliono i vertici della Chiesa – verso una dimensione sempre più di “festa cristiana”. O se va, come farebbe comodo a tanti altri, verso la confezione sempre più rodata di un brand turistico da esportare in mondovisione. Brand, per inteso, che si alimenta anche di alcune storture non esattamente tradizionali che però rafforzano il marchio e promettono folclore.
Se il pathos che accompagna l’uscita della santa è da rispettare per la genuinità di sentimenti; è anche vero che può evolversi in momenti di fede individuali e comunitari da percorrere con una costanza che non si deve risolvere nelle sole quattro processioni annuali, ma che anzi le può accompagnare e precedere. Le vie della devozione sono molto più vaste rispetto a quelle a cui spesso ci siamo abituati. E ragionarci sopra non è peccato.